Alle elezioni comunali di Roma, nel maggio del 2013, al primo turno andò a votare il 52,8 per cento degli elettori; al secondo, quello che sancì la vittoria di Ignazio Marino, i votanti furono il 45 per cento – nel maggio del 2008, quando vinse Alemanno contro Rutelli, al primo turno era andato a votare il 73,7 per cento e al secondo il 63. Nonostante al ballottaggio andasse meno di un elettore su due, Marino prese un bel po’ di voti in più del primo turno, e questo perché evidentemente su di lui confluì una parte dei voti che altre liste avevano raccolto al primo turno, per dire, quelli per il movimento 5stelle o quelli per Sandro Medici, e anche quelli per Alfio Marchini. Di suo, la coalizione che elesse Marino aveva preso 512.720 voti, che corrispondono esattamente al 21-22 per cento dell’elettorato romano. Marino è diventato sindaco, eletto da un romano su cinque.
Alle elezioni regionali siciliane dell’ottobre 2012, quelle che incoronarono Rosario Crocetta governatore, andò a votare il 47,5 per cento degli elettori – nel 2008 era stato il 66,7 – con una forbice tra il 51 per cento di Catania e Messina e il 41 di Agrigento e Caltanissetta. Crocetta, con la lista La rivoluzione è già iniziata, prese 617.073 voti, ovvero il 30,5 degli aventi diritto. Su un totale di 4.647.159 elettori siciliani, quei voti equivalgono al 13,3 per cento. Crocetta è diventato governatore della Regione Sicilia con il tredici per cento di voti, cioè con il voto di un siciliano su otto.
I numeri sono noiosi e non dicono tutto, è vero. Però, in questa sequenza di cifre – Marino e Crocetta non sono i soli a “vantare” questi risultati ma i più emblematici, e si potrebbe parlare di regionali calabresi e emiliano-romagnole del novembre 2014, quando andarono a votare rispettivamente il 43 e il 38 percento, in Emilia uno scandalo – forse è possibile rintracciare una qualche relazione tra la loro elezione che, benché certo formalmente legittima, è stata estremamente minoritaria dal punto di vista del consenso elettorale e la fragilità della loro amministrazione, del loro potere politico.
Rovesciando una espressione di uso comune, «eletto a furor di popolo», si può dire che le ultime elezioni in Italia – anche quelle del tanto enfatizzato 41 per cento di Renzi alle europee, dove andò a votare il 58,7 per cento, rispetto il 66,5 del 2009 e il 73 del 2004 – disegnano una parabola progressivamente discendente di partecipazione. O, vedendola altrimenti, ascendente di astensionismo. Vero o no, una volta, si mettevano le fette di salame nella scheda che poi si depositava nell’urna e si protestava così. Ora, l’astensionismo è «a furia di popolo». Non c’è divisione nord/sud nell’astensionismo, non c’è divisione di genere – donne e uomini si astengono in ugual misura –, non c’è neanche una significa differenza di classi di età: si può votare a diciotto anni, ma ci si può astenere dai diciotto ai novanta e oltre.
Tra il 1948 e il 1972 in Italia la partecipazione al voto è stata del 92 percento. Un record, tra le democrazie. Ci furono due picchi, il 1963, l’anno della nascita del centrosinistra, e il mitico 1968: votarono, rispettivamente, il 96,8 e il 96,3 percento degli aventi diritto. I sommovimenti sociali e culturali e politici si traducevano in voti.
Come ogni furore è possibile che esso vada come sia venuto, che passi; è possibile cioè che si torni a quei numeri bulgari di partecipazione italiana alle elezioni che caratterizzarono il dopoguerra e tutti gli anni Sessanta. Però, allora la mobilitazione era capillare – dai confessionali alle cantine, dagli ospedali alle associazioni, dalle piazze agli anfratti – e lo scontro titanico tra ideologie contrapposte, tra utopie e profezie tacciate di sventura, perdizione, ignoranza, dannazione. Era un voto dell’anima. C’è, cioè, un tempo storico, una relatività, in cui le elezioni si collocano, e quindi esse vanno valutate in questo senso – quel tempo storico non può tornare, quelle elezioni non possono tornare. E c’è anche una questione propria, assoluta: il voto caratterizza le democrazie.
Quelle anglosassoni sono segnate da sempre da una mobilitazione relativa degli elettori – il “caso americano” è il più emblematico di tutti – e questo non sembra avere mai avuto un peso significativo e peggiorativo sulla qualità delle loro espressioni. Anche se il movimento per i diritti civili negli Stati uniti nacque proprio intorno all’ampliamento della facoltà di iscrizione nei registri di voto per i neri, soprattutto negli Stati del Sud, e l’elezione di Obama sia al primo che al secondo mandato si è basata su una campagna mirata fortemente a spingere i non votanti a iscriversi nelle liste, e una delle battaglie decisive al Congresso adesso è contro i limiti al voto che i repubblicani stanno cercando di imporre alle minoranze. La democrazia italiana, almeno quella dal dopoguerra fino a poco tempo fa, è stata invece “segnata” dalla forte partecipazione elettorale, come una delle più forti espressioni della partecipazione alla vita sociale e politica del paese. L’astensionismo, perciò, non è solo una questione elettorale, che non indica nient’altro se non una disaffezione a dei meccanismi, sempre più tecnici e involuti – una volta c’era il proporzionale e i resti, poi il maggioritario e lo scorporo, poi sono venuti i “sistemi misti” e ci vogliono gli specialisti per capirci qualcosa, a volte passano mesi prima di poter proclamare eletto un candidato –, ma parla della qualità della democrazia nel nostro paese, e della sua legittimazione. Della legittimazione della sua forma rappresentativa. L’Italia è oggi, in Europa, il paese con il più alto tasso di astensionismo.
In un articolo recente sul «Corriere della Sera», il costituzionalista Michele Ainis, a proposito dell’astensionismo diventato ormai il primo partito, con «numeri che surclassano la Dc dei tempi d’oro» scrive: «Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti. È un errore, perché qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza. Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale. Però se l’onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d’indifferenza, nel migliore dei casi; d’avversione, nel peggiore. E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un’alluvione».
In sei Comuni del Trentino-Alto Adige, uno altoatesino e cinque trentini, nelle amministrative del maggio 2015 si arrivò a un passo dal commissariamento, visto che avevano un unico candidato a sindaco il quale non aveva superato il quorum del 50 percento dei votanti. Successe a Brez (49,5 percento), Samone (46), Faedo (38,7), Roncegno Terme (45,6) e Mezzano (50) in Trentino, e a Ortisei (40,3) in Alto Adige. Quattro dei sei candidati sindaci battuti dal disinteresse dei propri elettori, però, tirarono un sospiro di sollievo: la legge elettorale contiene un comma sul quorum dei votanti. Prevede che per determinarlo nel caso di un unico candidato sindaco non devono essere computati gli elettori iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero. Una clausola che salvò i candidati unici di Brez, Samone, Roncegno Terme e Mezzano.
È abbastanza curioso che in Italia il quorum dei votanti sia previsto solo nelle elezioni del Sindaco e del Consiglio comunale nei comuni fino a 15.000 abitanti, ove sia presente una sola lista. Anzi è necessario raggiungere un doppio quorum: il numero dei votanti non deve risultare inferiore al 50 per cento degli aventi diritto (quorum strutturale) e la lista deve aver riportato un numero di voti validi non inferiore al 50 per cento dei votanti (quorum funzionale). Qualora non si siano raggiunte tali percentuali, l’elezione è nulla. Sarebbe piuttosto da immaginare che tanto più grande sia una comunità territoriale, una comunità politica, e quindi più laschi i vincoli parentali, amicali, societari fra vicini quasi sempre scogniti gli uni agli altri, tanto più necessario sia il raggiungimento di un quorum, cioè una legittimazione di consenso con una chiara espressione da parte dei cittadini. Invece, è il contrario. In Italia non è previsto alcun quorum dei votanti per le elezioni politiche – e lo è invece, esprimendo il timore degli umori di popolo dei fondatori della repubblica per il referendum –, e si potrebbe parlare di “paradosso dell’uno determinante”, per cui, in linea teorica, anche un solo votante basterebbe ai fini dell’elezione. Un solo votante e l’elezione è valida. A pensarci bene, tutte le modifiche alla legge elettorale che attualmente si condensano nell’Italicum sembrano partire proprio da questa considerazione: come rendere legittima un’elezione dove la maggioranza degli elettori non vota? Come assicurare la maggioranza dei seggi al meno minore della minoranza della rappresentanza politica? Si chiama “governabilità”, il nuovo imperativo, e è la certificazione di una frattura insanabile tra la “società dei partiti” e la “società dei cittadini”.
Ainis propone di applicare una sorta di “sistema proporzionale” agli eletti: vota il sessanta per cento? Allora si abbia il sessanta per cento di eletti e decurtiamo il quaranta dei seggi previsti. Vota il quaranta per cento? Allora si abbia il quaranta per cento di rappresentanti. L’idea sembra buona per dimagrire e snellire “la società dei politici”, come una sorta di proporzione morale, ma non coglie la portata politica dell’astensionismo. E la legittimità delle elezioni.
In realtà, gli ordinamenti che, ai fini della validità dell’elezione, richiedono che alle procedure di voto abbia preso parte un certo numero di elettori (il cosiddetto “quorum dei votanti”) non sono la maggioranza. Per la democrazia – una testa, un voto – dovrebbe essere scontato, a garanzia della stessa autorevolezza e credibilità dell’elezione. Più ampio il raggiungimento del quorum, e maggiore il convincimento che alla scelta abbia contribuito la più ampia “volontà generale”; mentre più esso è basso, più evidente il fatto che la scelta, presa da pochi, non rappresenti la volontà di tutti. Come nella parabola del Vangelo, la democrazia dovrebbe sempre preoccuparsi non tanto degli animali che ha già al riparo nel recinto, ma delle pecorelle smarrite.
La legge elettorale francese del 1919 si pose il problema: nel caso in cui il numero dei votanti in una determinata circoscrizione non superasse la metà degli iscritti, prescriveva che l’elezione dovesse ripetersi quindici giorni dopo. Si applicasse in Italia, probabilmente oggi passeremmo buona parte delle nostre domeniche andando a votare, o continuando a astenerci, fino allo sfinimento. Quella legge fu abolita, e attualmente in Francia solo il conseguimento del seggio al primo turno richiede la partecipazione al voto di almeno un quarto degli iscritti nelle liste elettorali nel collegio di riferimento.
I sistemi elettorali sono condizionati dalla storia, in genere dalla storia che li ha preceduti. In Germania, nell’immediato dopoguerra, guardavano come a un incubo alla frammentazione partitica, e quindi all’ingovernabilità, della Repubblica di Weimar, che avrebbe aperto le porte al nazionalsocialismo; così, nel 1949, rifuggirono dal proporzionale puro e optarono per dare all’elettore due voti, uno per il collegio uninominale e uno per le liste regionali di partito, bloccate ovvero senza preferenza, introducendo una soglia di sbarramento del 5 percento e favorendo così le grandi organizzazioni politiche, la socialdemocratica Spd e la democristiana Cdu-Csu. In Spagna, dopo il franchismo, nel 1977, la transizione verso la democrazia si ancorò alla provincia come circoscrizione – le province risalgono all’organizzazione statale del XIX secolo, ma benché siano uguali per estensione territoriale sono molto difformi per densità demografica – perché si pensava che nei luoghi circoscritti si potesse più facilmente vincere. Il risultato è che se in una provincia ci vogliono ventiseimila voti per un seggio, in un’altra ce ne vogliono centoventicinquemila.
Adesso, sembra che la progettazione di nuovi sistemi elettorali non si basi più sulla storia passata, ma su quella a venire, cioè sull’incubo di un astensionismo di massa ricorrente. Io non credo che la Repubblica di Weimar sia crollata per “bulimia di voto”, penso però che qualunque democrazia possa infragilirsi e ridursi a una mera formalità per “anoressia di voto”.
OVF, oro vos faciatis, vi prego di farlo, cioè di andare a votare. C’era scritto così sui manifesti durante la campagna elettorale della Repubblica romana. Non che davvero avessero bisogno di essere pregati, i cives. Anzi, se la tiravano un po’, e solo attraverso allusioni a favori, scambi, privilegi, si decidevano a accordare il loro voto a questo o quel candidato – che si chiamano così perché duemila e cocci anni fa indossavano una veste bianca durante la campagna elettorale. Come per la Repubblica di Weimar, c’è chi sostiene che furono la corruzione e i brogli e l’eccessiva frammentazione politica a spalancare le porte all’Impero e al dominio di un solo uomo. Chissà se è vero. E sì che ne fecero di leggi i romani per evitare l’inciucio e lo scambio di voti.
L’astensionismo – che ha come due facce, uno di disgusto verso i meccanismi elettorali e politici, l’altra di affezione a una qualche forma di democrazia diretta – in realtà un riflesso forte sulle elezioni ce l’ha: le proporzioni di seggi che conquistano i candidati sono fortemente condizionate dalla misura dell’astensionismo; ormai, per la conquista di seggi, si calcola più quello che non entrerà che quello che si racimolerà. Forse sarebbe uno sfinimento, però io credo che andrebbe introdotta almeno una soglia di sbarramento per la legittimità di un’elezione: se non vota, mettiamo, il quaranta per cento degli aventi diritto, allora l’elezione deve ripetersi. Al secondo turno, niente quorum.
Ho come la sensazione che ne vedremmo di vesti candide in giro, con il cartello OVF, oro vos faciatis, vi prego di votare.
Nicotera, 27 luglio 2015