di Lanfranco Caminiti, Giuseppe Cocco, Andrea Colombo, Piero Despali, Chicco Galmozzi, Elisabetta Michielin, Brunello Mantelli, Stefania Mazzone, Mimmo Sersante, Giordana Terracina, Francesca Veltri.
Che ci sia una relazione strettissima tra la guerra in Ucraina iniziata da Putin il 24 febbraio e la guerra tra Israele e Hamas iniziata il 7 ottobre – è il principio di questa riflessione. Certo, non nel senso di una loro pianificazione: Hamas non ha bisogno del “visto” di Putin per decidere l’attacco del 7 ottobre – si sente e agisce da sovrano sul proprio territorio, Gaza, che ritiene, dopo il colpo di forza del 2007, il suo Stato.
La guerra iniziata da Putin e la guerra iniziata da Hamas sono strettamente connesse perché sono il sedimentato detrito dei due più importanti eventi politici della fine del novecento: la caduta del muro di Berlino, con la successiva dissoluzione dell’Urss e poi il progetto di Putin di restaurare l’antica grandeur zarista; e la rivoluzione di Khomeini in Iran, con la nascita del fondamentalismo islamico come soggetto politico globale, determinante in un’area che non è stata mai, per gli interessi che vi intercorrono, regionale e periferica, e nuovo “sol dell’avvenire” per milioni di fedeli sparsi nel mondo: la rivoluzione di Khomeini non si limita cioè a costruire il “fondamentalismo in un solo paese”, ma apre a un “fondamentalismo permanente” nel mondo. Entrambi eventi che si condensano prima nella guerra in Jugoslavia dove la frammentazione della repubblica federale – con etnie, popoli, nazioni, lingue e religioni tenute insieme, da un apparato politico monopartitico e dalla leadership carismatica e cesaristica di Tito, fino a un momento prima – dà origine al rigurgito di un esasperato micronazionalismo che diventa in fretta una guerra etnica e religiosa nel cuore dell’Europa persino inimmaginabile, come fosse il riemergere di una pre-modernità che si pensava avere cancellato (e che peraltro minaccia di volere ricominciare sempre); e poi con l’11 settembre che è la fine della “guerra fredda” – che aveva caratterizzato il rapporto di reciproco equilibrio, anche e soprattutto nucleare, tra Urss e Usa, tra “campi” – e l’instaurarsi di quella “eruzione vulcanica” in cui ci troviamo ora, ovvero della totale destabilizzazione di quell’ordine mondiale nato dalla Seconda guerra mondiale. L’inizio del secolo è perciò già dentro una nuova “guerra dei mondi”, che non va però confusa con lo “scontro di civiltà” da alcuni teorizzato. Una guerra il cui puzzle, pezzo dopo pezzo, si va ricomponendo fino a mostrarci, per chi voglia vederlo, il quadro generale.
La guerra iniziata il 24 febbraio e la guerra iniziata il 7 ottobre sono perciò strettamente connesse perché mostrano infine il mondo quale è adesso: dentro le catastrofi, sull’orlo di una catastrofe globale.
La fine dell’ordine mondiale.
La fine dell’ordine mondiale nato dalla Seconda guerra mondiale – sarebbe potuta essere una buona novella: non più l’ordine imperiale americano, evidentemente in declino, non più il bipolarismo Usa/Urss con una spartizione delle aree di influenza, con Mosca indebolita, e invece la crescita di nuove società, nuovi soggetti economici e politici – l’Unione europea, la Cina, l’India, il Brasile, l’Indonesia, altri, con un interesse generale a anteporre gli scambi ai conflitti. Si poteva persino immaginare una nuova configurazione delle Nazioni unite, e dei diritti di veto – la cui totale impotenza si era mostrata durante gli orrori in Ruanda. Mai più.
Così non è stato e non è – abitiamo un mondo che non è più ma non è ancora. Ancora una volta, come prima della Grande Guerra, l’illusione di un “ultraimperialismo” in cui la globalizzazione economica funzioni da deterrente verso l’evoluzione dei conflitti in guerre guerreggiate si è dimostrata fallace. Siamo invece dentro l’incubo delle guerre mondiali, perché ognuna si riflette in un’altra, come tessere di un domino, in cui anche potenze minori cercano il proprio spazio vitale, fomentando conflitti o impedendo qualunque ricomposizione, profittando dei “buchi” rimasti aperti, dei vuoti che provano a riempire: così è in Europa, così è nel nord e nel centro Africa, così è in Medio Oriente. Effetti immediati di questa moltiplicazione dei conflitti sono la crescita dell’esodo di milioni di persone nel mondo in cerca di un luogo della sopravvivenza – vera “rivoluzione silenziosa” – e la crisi della globalizzazione economica, con le risorse naturali e le merci e la tecnologia usate come “arma di guerra”. Non è solo la catena del valore che si inceppa: le società civili sono coinvolte in ogni guerra nel mondo, anche lontano dalla conflagrazione dei fuochi, e ne soffrono, proprio per questo.
Più che mai, perciò, prima di precipitare definitivamente nella deflagrazione globale conclamata – oggi questo mondo ha bisogno di spegnere i suoi fuochi, trovare una ricomposizione che trasformi il puzzle disperso in un quadro di pace. Forse si può dire meno enfaticamente – di non guerra.
Non può esserci alcuna risoluzione unilaterale, che lasci solo macerie dietro di sé. Non può esserci nessun conflitto “regionale” che rimanga così com’è.
La desolante realtà.
La desolante realtà è che non esiste oggi un soggetto istituzionale globale in grado di porre un freno ai conflitti, di ricomporre interessi, di imporre compromessi: l’ONU è una assise di fragilità conclamate, di reciproche accuse, di assenza di un qualunque spirito universale dell’umanità. Qualsiasi trattativa, qualsiasi mediazione, qualsiasi interposizione sembra oggi svolgersi tra composizione e scomposizione di interessi e di alleanze a cui subentrano nuove alleanze dando origine a accordi privi di qualche stabilità. E non esiste una potenza mondiale in grado di imporre il proprio ordine neppure nella sua parte di mondo: non lo è di certo più l’America – dilaniata da un conflitto interno esacerbato dal trumpismo e visibile nell’attacco del 6 gennaio a Capitol Hill – le cui geometrie variabili di alleanze sono completamente saltate, e le si sono spesso rivolte contro: non sono più sufficienti i suoi cannoni, non è più sufficiente la sua american way of life, non è più sufficiente il dollaro, non è più sufficiente il Washington consensus; ci sono altri cannoni nel mondo, ci sono altre forme di vita, ci sono altre monete, ci sono altri soft power.
Infine, non esiste più un sistema di produzione dalle sorti magnifiche e progressive per l’umanità intera, perché portava con sé non solo promessa di distribuzione di ricchezza ma dei diritti inalienabili dell’uomo: il disallineamento tra produzione e diritti, il disaccoppiamento tra lavoro e cittadinanza è possibile. Il verbo dei nuovi profeti è: sicurezza; non più: libertà. E il securitarismo prevede “liberi servi”.
Più grave ancora per noi, è costatare il declino di quel soggetto politico internazionale, globale, che chiamavamo movimento operaio e sinistra – quel soggetto che dalla seconda metà dell’Ottocento aveva cercato di opporsi alle guerre, aveva poi tentato di trasformarle in rivoluzioni sociali (anche se l’esito della rivoluzione d’Ottobre e l’estensione, dopo il 1945, del modello politico a cui aveva dato vita a larga parte dell’Europa centro-orientale era stato assai deludente), sosteneva l’unità dei proletari di tutto il mondo contro il medesimo nemico: la produzione e la distribuzione della ricchezza secondo le leggi del capitale. Si potrebbe anche dire che il tramonto attuale dell’occidente altro non sia che il tramonto del movimento operaio e della sinistra, al di là di come, dal 1917 in poi, essa si era configurata.
E non è solo la scomparsa di un “corpo politico” – è la scomparsa di una lingua. Di una grammatica, di categorie, di concetti, di locuzioni, di argomenti, di una intelligenza del mondo. Accade così che quando parliamo dello stato del mondo prendiamo a prestito vocaboli di lingue che non sono “nostre”. Come altrimenti sarebbe possibile che chi ancora crede nei diritti del lavoro, si schieri nella guerra in Ucraina dalla parte di Putin, un regime autoritario e parassitario, irreversibilmente autoritario e parassitario, gradito alle peggiori destre europee, e ne sposi le motivazioni? Come è possibile che chi sta con le donne iraniane e la loro coraggiosa e indomita lotta, poi consideri le “ragioni” di Hamas, l’oscurità della fede fatta governo della società? Come è possibile che chi conosce la sofferenza del popolo palestinese, abbia sdoganato parole e slogan irripetibili di un antisemitismo che credevamo scomparso e pensi che nei confronti di Israele non possa valere altro che lo stesso principio fondativo del fondamentalismo islamico, programma apertamente dichiarato da Hamas e Jihad islamica, un panislamismo che supera la questione delle terre contese di Gaza e Cisgiordania, di impronta nazionalista, per aprire la strada a guerre di religione – radere al suolo Israele fino all’ultima pietra rimasta del Tempio di Salomone? Indossiamo perciò una lingua che non è più e non è ancora. Che vive di scorie. Di scorie del Novecento. La polarizzazione linguistica, il radicalismo verboso sono lo specchio della povertà della parola della sinistra.
Se non costruiamo anzitutto un territorio linguistico nuovo, il nostro nemico sarà lo stesso di un altro, e il nostro amico sarà lo stesso di un altro – un altro, con cui però non prenderemmo mai un caffè. Fosse pure per prudenza.
La guerra di Putin e la guerra di Hamas – benché Putin e Hamas siano cose estremamente diverse e persino confliggenti, l’uno nell’esercizio del potere di uno Stato totalitario, dove la religione fa parte dell’istituzione totale, l’altro in quello di uno Stato teocratico, dove l’istituzione è subordinata alla sharia – sono in una relazione strettissima perché entrambe sono tasselli di “un altro mondo” dalla post-democrazia liberale. Un altro mondo che si propone come alternativa alla crisi della modernità, come risposta-soluzione alle complessità (il climate-change, le migrazioni, la moltiplicazione dei diritti che vanno a collidere con altri diritti) con l’opzione della nuda forza senza limiti e balancement. Quella che era stata predetta come la fine della storia sta invece somigliando a un riavvolgersi del nastro della storia: un ritorno al pre-moderno, al pre-Illuminismo, a ciò che stava prima del 1789. Comunque lo si osservi, un incubo.
L’incubo in cui viviamo.
Un incubo reso ancora più oscuro dall’avanzata delle destre in occidente, che sono andate a riempire il vuoto lasciato dalla crisi della sinistra e del movimento operaio e nella post-democrazia liberale si pongono come baluardo dei valori occidentali per fermare l’avanzata dei barbari. Etno-nazionalismi, appunto. Ci promettono sicurezza, ci promettono di avere salva la vita. Noi, eh, non gli altri.
Impauriti come siamo da questi incubi e afasici o balbuzienti, privi cioè delle parole per scacciarli via, di un “esorcismo della conoscenza” che tenga lontano il buio – crediamo che il primo, immediato compito, sia quello di tenere la luce accesa.
La nostra luce accesa – si chiama Europa.
Cosa intendiamo quando diciamo “Europa”? Intendiamo soprattutto questo: la politica. L’Europa ad ovest dell’Elba che alla fine della Seconda guerra mondiale raccoglie i suoi miseri cocci e si rimette assieme lo fa nel nome della sacralità della lotta politica: la battaglia politica è ciò che si oppone alla brutalità della potenza, alla crudezza della potenza, alla geometria della potenza, persino all’estetica della potenza. È la lotta politica che pone le condizioni della democrazia, e non il viceversa. È quando la lotta politica si affievolisce che la democrazia diventa una formalità rituale, una pratica da sbrigare, un iter da archiviare.
E la battaglia politica è l’opposto di ogni tensione identitaria: l’Europa non è una identità, non è una unica identità. Che sia identità etnonazionalista o religiosa, che sia etnonazionalista e religiosa – le derive cioè di quella malattia della globalizzazione il cui veleno è l’ossessione identitaria. Dove c’è battaglia politica lì c’è Europa. Lì c’è il lascito dell’Europa.
L’Europa è un progetto politico con una promessa di libertà ed eguaglianza. Non per caso è verso l’Europa che puntano le masse dei diseredati delle aree più sconvolte dalla “guerra dei mondi” in corso: dall’Africa, mediterranea e subsahariana, dal Vicino Oriente, dall’Asia meridionale, e lo stesso movimento porta dal Sud e Centroamerica verso gli Stati Uniti. Cosa cercano i migranti in Europa e negli USA? Una speranza, uno spazio di autorealizzazione che li sottragga al destino imposto da territorio, culture e religioni d’origine. Una speranza di uguaglianza e un desiderio di libertà, anche se quella promessa oggi rischia di suonare, per molti versi, retorica e vuota.
La “nostra” Europa è quella dei movimenti di giustizia sociale. Questa stessa “Europa” noi rintracciamo nella lotta oggi delle donne iraniane contro il regime dei mullah o abbiamo desiderato prevalesse in quella sfortunata “primavera araba”, la rivoluzione dei gelsomini del 2011, che tante speranze aveva suscitato; e anche nelle manifestazioni che hanno scosso Israele per trentanove settimane di fila, contro la pretesa del governo di Netanyahu di mettere l’apparato giudiziario sotto controllo.
I conflitti geopolitici tra potenze, imperiali o minori, tendono a oscurare i conflitti sociali – si narrano come “campi”, come “blocchi”, come “valori”: la terza Roma contro la deriva depravata dell’occidente, la democrazia contro l’autoritarismo, il jihad con la promessa del paradiso contro il Grande Satana.
Sono queste narrazioni che dobbiamo scomporre, non in frammenti ma nella loro complessità: ci sono i governi, ci sono le economie, ci sono le società, ci sono i popoli. Ci sono, appunto, i movimenti e le politiche. Insieme.
L’aggressione di Putin all’Ucraina il 24 febbraio e il pogrom del 7 ottobre di Hamas sono una dichiarazione di guerra congiunta del totalitarismo e del fondamentalismo. Qualunque argomentazione che prova “a contestualizzare e a storicizzare” questi due eventi nasconde con un gioco di prestigio quelle che per noi sono le due verità evidenti: il totalitarismo di Putin è la sciagura del popolo russo proprio come il fondamentalismo di Hamas è la sciagura del popolo palestinese. Entrambi sono la minaccia mortale per i movimenti di giustizia sociale in Russia e in Palestina; entrambi sono la minaccia mortale per i movimenti di giustizia sociale nella “nostra” Europa. Qualunque argomentazione che prova a distanziare e a separare questi due eventi nasconde con un gioco di prestigio una verità evidente; entrambi questi eventi – il 24 febbraio e il 7 ottobre – sono il “punto di raccordo” degli autoritarismi e dei fondamentalismi nel mondo, la loro “chiamata alle armi”: fare a pezzi l’Europa, fare a pezzi il Mediterraneo, fare a pezzi il mondo.
È il momento più buio dalla Seconda guerra mondiale.
Novembre 2023.