«In these difficult times, we must hold on to — and champion — what matters most: our country and #democracy. In questi momenti complicati, dobbiamo tenerci stretto — e difendere — quello che conta di più: il nostro paese e la democrazia». Con questo tweet, in cui i due elementi che hanno caratterizzato sinora la sua leadership — una sorta di “populismo nazionale” dalla parte dei più deboli e il ricorso allo strumento del voto, come fosse ogni volta un referendum su di sé — e con il discorso di sette minuti sette, in parlamento, annunciando le proprie dimissioni, Alexis Tsipras ha formalmente iniziato la campagna elettorale.
Dopo l’approvazione del terzo piano di salvataggio da 86 miliardi passato in parlamento ancora una volta con i voti dell’opposizione — Syriza ha 149 seggi su 300 e i «dissidenti» interni sono stati 44 —, forse a Tsipras non restava altro che rimandare ogni decisione all’espressione popolare del voto. Benché Syriza sia ancora accreditata di un risultato oltre il trenta per cento, senza ottenere di nuovo alcuna maggioranza in parlamento, la simpatia verso il leader è immutata: Tsipras raccoglie, nei sondaggi, oltre il sessanta percento. All’incirca, il risultato del referendum di luglio — quello sull’accettazione o no delle proposte europee, quello dell’Oxi schizzato al 61,3 percento.
Panagiotis Lafazanis, ex ministro dell’Energia e punto di riferimento di Piattaforma di sinistra, l’ala di Syriza che ha votato ripetutamente contro Tsipras e l’accordo di compromesso ottenuto dalla Germania e dall’Europa, ha messo assieme un nuovo partito, Leiki Anotita ovvero Unità popolare, e si presenterà con una propria lista: «La piattaforma di sinistra contribuirà alla formazione di un ampio fronte progressista, democratico e antimemorandum che parteciperà alle elezioni per imporre la cancellazione degli accordi», ha spiegato. Unità Popolare, con i suoi venticinque deputati “uscenti”, sarebbe la terza forza della Camera greca, ma è accreditato dai sondaggi per un 5-6 percento di voti. Varoufakis, il pirotecnico ex ministro delle Finanze, non è dei loro. Le camicie colorate e improbabili di Varoufakis sembrano non trovare approvazione da nessuna parte. Si vedrà.
Nell’arco di un anno circa, è la quinta volta che i greci sono chiamati al voto, da quando Tsipras si rifiutò di avallare la formazione di un governo di unità nazionale guidato dal leader di Nea Dimohkratia, Antonis Samaras, che aveva raccolto più voti ma senza riuscire a formare una maggioranza — una situazione di stallo simile a quella che accadde a Bersani, al tempo in cui anche noi italiani votammo senza costrutto. Sarà un segno di instabilità — tutte le istituzioni europee si sono affannate a dichiarare, chi in punta di diritto, dato che sono state già approvate da un parlamento, chi in punta di politica, spiegando che l’Europa ha bisogno di una maggioranza sicura in parlamento greco, che nulla cambia rispetto le clausole del memorandum e gli impegni che i greci si sono assunti di rispettare — però fa pure una certa invidia.
È singolare che i due leader europei che hanno incrociato di sciabola e fioretto il loro armamentario di idee e visioni sulla crisi, il deficit, lo sviluppo, la stessa unità politica del continente, soffrano entrambi — chi da sinistra chi da destra — di una “opposizione interna” che si esprime in parlamento. Anche se quelli contro la Merkel sono diminuiti: il Bundestag ha approvato pochissimi giorni fa il piano di finanziamento ai greci con 454 voti favorevoli, 113 contrari e 18 astensioni; nel voto precedente per l’avvio dei negoziati sul terzo pacchetto di aiuti, il 17 luglio, 439 deputati avevano votato a favore mentre 119 si erano opposti, 40 gli astenuti. In quell’occasione, erano stati sessanta i membri della Cdu/Csu, il partito della Merkel, a opporsi al piano per la Grecia, e ora invece sono una cinquantina quelli che hanno voltato le spalle alla Cancelliera. Forse perché in quest’occasione è stato il “vituperato” ministro delle Finanze, Schauble, a esporsi in prima persona, a fare da parafulmine. Curioso, no, che i “dioscuri” greci — Tsipras e Varoufakis — siano finiti lontano uno dall’altro, e i due tedeschi che “si guardavano a vista” a chi fosse più esigente e cinico abbiano finito con il sostenersi a vicenda. Che cosa straordinaria che è la politica.
L’Europa perciò va verso un autunno elettorale. Molti occhi sono puntati sulla Spagna: sinora, tutta la battaglia di Tsipras e Syriza sembrava poter trovare una amplificazione in Spagna, un raddoppio, perciò un rafforzamento di opzioni che puntavano decisamente a porre fine all’austerità. Poi, quando il negoziato ha cominciato a incrinarsi e la forza contrattuale della Grecia, da sola, non era bastevole, è stato lo stesso Iglesias di Podemos a prendere le misure: la Grecia è la Grecia, la Spagna è la Spagna. La Spagna sta facendo buoni risultati economici, sono ripresi gli investimenti, soprattutto nel settore immobiliare, quello che era scoppiato di bolla e che aveva messo in ginocchio il paese, anche se l’occupazione non risale e il deficit si mantiene alto. Saranno delle belle elezioni.
E poi ci sono le primarie inglesi del Labour Party, dove Jeremy Corbyn con una piattaforma “socialista” sta guadagnando consensi su consensi, facendo strappare i capelli a tutta l’ala blairiana. E, la Grecia, appunto. A settembre i greci non voteranno solo per un nuovo governo, né se il memorandum con cui si è chiusa la trattativa con la Germania sia effettivamente sostenibile; voteranno per un’idea di Europa. A parte l’Inghilterra, che va facendo adesso i conti con il thatcherismo — il programma di Corbyn sembra proprio, al rovescio, inseguire tutte le idee politiche e economiche della lady di ferro — e il “decennio d’oro”, per la finanza internazionale, blairiano, in Spagna e Grecia si parlerà d’Europa e di democrazia. Si voterà per l’Europa e la democrazia.
Gli unici che proprio non votiamo, siamo noi italiani. Tra patti, maggioranze variabili, minoranze minaccianti, grandi riforme che non vedono mai la luce, opposizioni che non si oppongono, appropriazioni indebite di risultati elettorali, minimizzazioni di altri risultati elettorali (dipende come sono andati), dichiarazioni roboanti sulla “non paura del voto” — l’unica cosa che proprio non accade è andare a votare. Il nostro primo ministro sembra determinato a non votare finché non riesca a far approvare una qualche legge che renda inutile il voto, ovvero gli consegni comunque una maggioranza. Sembra come la pubblicità di qualche anno fa del Gratta e vinci, quando contro una squadra di calcio già in campo, arrivava come un’orda di giocatori avversari, centinaia, che uscivano dal tunnel e andavano a occupare praticamente metà di un campo mentre quel primo undici restava interdetto e sperduto e una voce fuori campo diceva: «Ti piace vincere facile». Ecco, a Renzi, piace vincere facile, e di “sfidare la democrazia” non ha proprio alcuna intenzione.
Noi italiani conosciamo ormai solo una “democrazia ad interim”. Che invidia, che ho, per i greci.
Nicotera, 21 agosto 2015