Recensione: Brigate rosse: dalle fabbriche alla «campagna di primavera».

Cinquecentocinquanta pagine fitte fitte, ricche di note e rimandi, con alle spalle una consultazione di fondi e archivi senza eguale – anche perché non è di molto tempo la disposizione della presidenza del Consiglio che ha reso pubblico il materiale conservato presso Carabinieri e ministero degli Interni – e di tutti gli atti processuali e delle Commissioni parlamentari, nonché di buona parte della letteratura precedente.
Insomma, un lavorone. E è solo il primo di tre volumi. Brigate rosse: 
dalle fabbriche alla «campagna di primavera», a firma di Marco Clementi, Elisa Santalena e Paolo Persichetti, due storici universitari i primi, un ricercatore indipendente il terzo. Al centro, il sequestro e la morte di Moro. Pagine arricchite da documenti sul dibattito interno ai partiti politici, anche questi rilevanti e di abbastanza recente acquisizione, e dall’incrocio dei carteggi «con le testimonianze dell’epoca e con i racconti di alcuni protagonisti raccolti nel corso di lunghe e ripetute conversazioni», il che lascia pensare anche a una sorta di “biografia autorizzata”.
Il primo obiettivo, metodologico, “di mestiere”, è quello di sgombrare il campo dalle ipotesi “saggistiche”, quelle cioè che hanno ricostruito storie e scenari solo sulla base di suggestioni e senza produrre documentazione inequivoca. Qui, in particolare, si vuole farla finita con le ipotesi dietrologiche del “complotto” e dell’eterodirezione e «la confusione di tempi e luoghi, l’uso di acquisizioni parziali, di ricostruzioni lacunose, di errori macroscopici, manipolazioni, invenzioni, correlazioni arbitrarie, affermazioni ipotetiche, false equazioni», una circolarità che si autoalimenta e si fa impermeabile. Le Brigate rosse non furono uno strumento della Cia né del Kgb né del Mossad, e la loro linea politico-militare e le loro decisioni non erano stabilite a Mosca o a Washington ma nei luoghi dove si riunivano le loro cellule e la varia compartimentazione della loro organizzazione. Sembrerebbe un dato acquisito, ma evidentemente gli autori ritengono che sia ancora necessario ribadire questo concetto.
Ancora: non ci sono, almeno finora, documenti che provino che le Brigate rosse siano state infiltrate. Non ci sono carte, tracce, testimonianze, pentimenti, lasciti testamentari che possano, in qualche modo, attestare questa cosa. È curioso che il più tenace sostenitore dell’infiltrazione delle Brigate rosse non sia un “complottista” di mestiere ma un brigatista e non di poco peso, Alberto Franceschini. Ne fa una questione “politica”, e non di spionaggio, anche se lascia intendere che ci sia altro in quell’interessamento dei Servizi; ma spesso le sue dichiarazioni, anche in sede istituzionale, sembrano più l’ossessione di una resa dei conti all’interno di una stessa storia, basata cioè su una distinzione tra le Br “di prima” (le sue e di Curcio, scremate dalle strane frequentazioni dell’Hyperion e del Superclan) e quelle “di dopo” (di Moretti e Senzani), che in realtà non regge a nessuna analisi storica dei fatti. La decisione di “portare l’attacco al cuore dello Stato” è delle Br “di prima”, anche se in realtà fu solo con le Br “di dopo” che la cosa prese forma. Tutto condiviso.
L’altro obiettivo, storico, è quello di superare la damnatio memoriae che, a parere degli autori, sembra condannare la storia del brigatismo. «Nei fatti, non è mai esistita la possibilità di una memoria storica del brigatismo che riconsegnasse alla società un fenomeno sociale che non fu figlio illegittimo, ma parte integrante, anche se minoritaria, di uno scontro decennale di cui pochi in Italia hanno ammesso l’esistenza», scrivono. Ora, questo, che è assolutamente vero per tutte le storie dei vinti, è relativamente vero per il caso specifico italiano. La profusione di materiale su quegli anni – anche di produzione “di parte”, e non necessariamente in forma saggistica – è abbondante: a esempio, lo è se si fa un paragone con la storia dell’Armata rossa giapponese, di Action directe, della Rote Armee Fraktion, che sicuramente furono un’altra cosa ma anche no. La storia della Raf finì tragicamente, e quasi misteriosamente, a Stammheim. Finì come la storia di un gruppo clandestino i cui legami di radicamento nella società tedesca erano tenui e in un paese in cui il livello dello scontro sociale non era mai stato – dopo l’attentato a Rudi Dutschke – paragonabile con quello italiano. La storia degli anni Settanta in Italia è invece ancora viva, e lo è perché nonostante una frattura generazionale le teorie di quell’opposizione hanno mantenuto senso e valore a distanza di anni, e perché l’Italia è un paese dove la conflittualità è rimasta radicata. Altrove, che sono storie diverse ma anche no, è capitato che il comandante dell’Ira (Martin McGuinness) sia diventato il vice primo ministro del parlamento irlandese; altrove, un giovane militante armato dei Tupamaros (Pepe Alberto Mujica) è diventato un maturo e benvoluto presidente del suo paese, l’Uruguay. Ma e la storia dell’Ira e la storia dei Tupamaros – che pure influenzarono tutte le formazioni rivoluzionarie degli anni Settanta in Italia – ebbero evoluzioni a noi sconosciute. E questo è un problema delle Brigate rosse, non della memoria storica.
Infine, il lavoro dei tre autori impalca la storia delle Brigate rosse nella fabbrica e nel conflitto operaio di quegli anni. Il che, per un verso è innegabile, per l’altro è però perseguito in maniera “giustappositiva”: la biografia di molti militanti delle Br è quella di lavoratori, di tecnici, di operai-studenti, ma questo non significa assolutamente che il loro radicamento nelle fabbriche fosse significativo. Vengono citate l’Assemblea autonoma dell’Alfa Romeo o il CUB Pirelli o la Sit-Siemens come “prova provata” di questa presenza, ma sia all’una che all’altra esperienza si richiamava buona parte della sinistra rivoluzionaria di quegli anni. La presenza delle Brigate rosse era di poco rilievo fino a quando gruppi rivoluzionari più consistenti e radicati, come Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio, il Movimento studentesco della Statale e il pulviscolo delle formazioni marxiste-leniniste erano forti e molto forti. Mettere in coda alla fila, il Collettivo politico metropolitano o Sinistra proletaria (le “basi” da cui si formarono le Brigate rosse, insieme ai giovani provenienti da Reggio Emilia), come stessero alla pari delle altre non è proprio verissimo. E così, riferirsi al conflitto dei “fazzoletti rossi” alla Fiat – che ebbe punte arditissime di scontro, e che poi rifluì in una sconfitta e fuga dalla fabbrica – come fosse “spizzicato” dalle Br, non è proprio una cosa verissima. Anche quando scoppia la crisi della sinistra extra-parlamentare e cominciano a organizzarsi forme di Autonomia operaia (con la maiuscola), le Br sono una presenza reale ma di poco rilievo.
Questo dato, di una presenza costante ma minoritaria, viene riconosciuto dagli autori in alcuni passaggi – «la lotta armata divenne a metà decennio un’opzione che conquistò sempre più larghi settori di movimento. Le Brigate rosse furono, semplicemente, parte di questo processo» – e misconosciuta in altri, costruendo una sorta di progressivo avvicinamento al “punto più alto dello scontro” e del decennale conflitto di classe in cui le Brigate rosse sono la punta di diamante del più ampio movimento rivoluzionario. Il che non è proprio vero, anzi.
E qui veniamo al punto focale del libro, il sequestro Moro. La cosa sorprendente è che non viene detto assolutamente nulla di politicamente significativo sulla decisione di uccidere Moro. Moro muore perché la ragion di Stato non può venire incontro alle richieste delle Brigate rosse, e perché le Brigate rosse, la ragione rivoluzionaria, non possono liberarlo senza perdere la faccia. Autoassolvendo le Br – ci fu un limite oltre il quale non si poteva andare – paradossalmente assolvono la Democrazia cristiana, che aveva un limite oltre il quale non poteva andare. In questo doppio movimento bloccato, Moro finisce con l’essere la vittima sacrificale di una ragione e dell’altra opposta. Un Moro che, in prigione, aveva continuato a fare politica, spiazzando lui tutti. Prendere atto di questo inaspettato quadro che si era delineato dopo il sequestro, era “politica”. Mancò cioè la politica. L’operazione militare più incredibile compiuta da una organizzazione rivoluzionaria combattente si risolse in un gesto che, a pensarlo oggi, sembra solo la presa d’atto di una disfatta. È curioso che l’unico ragionamento alternativo all’ineluttabilità della morte di Moro stia in una nota a pagina 534: «C’è chi sostiene che la liberazione di Moro avrebbe favorito l’apertura di una nuova stagione politica perché il fronte emergenzialista sarebbe stato messo all’angolo. Il ministero dell’Interno, lo si è visto, aveva tuttavia elaborato il “piano Viktor” per fare fronte a una simile evenienza e depotenziare gli effetti disarticolanti della liberazione del prigioniero. Appare dunque difficile fare ipotesi in tal senso». Ma il piano Viktor avrebbe depotenziato la persona di Moro, in quarantena, non l’onda del senso della sua liberazione. E a vedere come è finita, dopo la morte di Moro, forse qualunque altra cosa sarebbe stata meglio, e non è che qui ci voglia la palla di vetro per fare ipotesi in tal senso. Che tutte le Br, di dentro e di fuori, di cielo, di terra e di mare, fossero per la morte di Moro, tranne Morucci e Faranda, o che spingessero per una rapida soluzione mentre Moretti cercava ancora di prendere tempo sperando non si capisce bene in quale risposta (avevano avuto il riconoscimento di Waldheim, cioè dell’Onu, avevano avuto il riconoscimento del papa, avevano avuto interessamenti internazionali), non è che cambia la sostanza della cosa. L’unico che agì politicamente – nel senso di opporsi all’ineluttabile – fu Craxi. E rimane il retropensiero, benché smentito, che uno dei motivi, forse non il più importante, che abbia pesato nella decisione su Moro fosse il timore che si potesse creare un asse fra le posizioni di Morucci e Faranda (interne all’organizzazione) e quelle dell’Autonomia (con la maiuscola) che tutta, a gran voce, chiedeva la liberazione del prigioniero, e che aveva creato anche un asse “istituzionale”. Le Br non potevano permettere d’essere considerate il “braccio armato” di qualcosa che fosse fuori di loro – avanguardia combattente, il politico e il militare insieme, teoria e pratica, e tutte queste cose qua.
Per gli autori, le Brigate rosse erano attrezzate teoricamente, erano inventive organizzativamente, erano capaci militarmente (benché le loro armi fossero “povere”: si bloccarono a via Fani, si bloccarono a via Montalcini, e qualche sbadataggine fece rischiare grosso: a via Gradoli, a Monteverde). E allora? Fu la repressione di dalla Chiesa e l’uso della tortura a distruggerle? Non si avvalora così proprio la tesi di chi pensava che la crescita e la persistenza delle Br fossero dovute a un eccessivo lassismo e bisognasse farla finita? Forse non sono i tre storici che possono dare risposte, però avrebbero potuto porre le domande.
Ai prossimi volumi. Oh, a proposito, la rivolta di piazza Statuto, di cui si parla a pagina 43, è del 1962, e non del 1961 come vi è scritto. Solo un refuso, certo.

Nicotera, 15 marzo 2017
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 16 marzo 2017

 

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