Media e web nella corsa presidenziale fra Clinton e Trump.

usa-today-trumpGlenn Greenwald, che era giornalista del «Guardian» quando raccontò la storia di Edward Snowden e dei sistemi pervasivi segreti di sorveglianza del governo americano, intervistato dalla rivista «Slate» l’ha messa giù brutale: «The U.S. media is essentially 100 percent united, vehemently, against Trump / I media americani sono essenzialmente al cento percento uniti, con veemenza contro Trump». C’era stata quella conferenza-stampa in cui Trump, parlando delle e-mail scomparse della Clinton da un server privato quando era Segretario di Stato, sembrava avesse chiesto ai russi, così bravi a hackerare i siti istituzionali americani, di portarle alla luce, di fargli questo favore. Una frase – se davvero avesse invitato i russi a un cyber attack – che suonava al limite del tradimento, e che così per giorni era stata “letta” dai media. Ovviamente, Trump non aveva proprio detto in quel modo.
Ma il nocciolo della questione era quello che poneva Greenwald. Non sono state solo le testate democratiche a dichiarare il proprio endorsement per la Clinton, ma sorprendentemente molte testate di provata fede repubblicana.
In un editoriale del 2 ottobre, «Usa Today», uno dei più diffusi quotidiani, ha rotto una lunga tradizione di non schieramento nella corsa presidenziale con un editoriale in cui dichiarava Trump «unfit for the presidency». «Whatever you do, however, resist the siren song of a dangerous demagogue. By all means vote, just not for Donald Trump / Qualunque cosa tu faccia, comunque, resisti alle sirene di un pericoloso demagogo. In ogni caso, vota, ma non per Donald Trump».
Cinque tra i più importanti quotidiani conservatori hanno espresso la loro opposizione a Trump, talvolta rompendo una tradizione più che centenaria. «The Arizona Republic» non appoggiava un candidato democratico dal 1890; «Detroit News» non ha fatto mancare il suo appoggio a un candidato repubblicano solo tre volte dal 1873; il «New Hampshire Union Leader» e il «Cincinnati Enquirer» non sostenevano democratici dal 1916; mentre l’ultima volta che il «Dallas Morning News» si era schierato con un democratico era il 1944 e il candidato era Franklin D. Roosevelt. In più casi, lo schieramento della testata è stato dichiarato più per una presa di distanza dal candidato repubblicano che per un appoggio convinto a quello democratico.
Ora, non è importante discutere se il giudizio di Greenwald sia vero nei fatti – per dire, numerose “facce” di Fox News sostengono Trump, e così è per la rete Breitbart, e parliamo di “numeri” di elevata consistenza – quanto ragionare su un altro pezzo della sua intervista. Greenwald fa un paragone con il comportamento dei media inglesi durante la campagna per la Brexit. Quasi tutte le più autorevoli e importanti testate erano contro la Brexit e le élite passavano il loro tempo a twittare e dir male di Boris Johnson e dell’Ukip di Nigel Farage, e si era creato un effetto di risonanza per cui l’una cosa trovava conferma nell’altra in un circolo autoreferenziale che dava per scontato un esito vittorioso del Remain e che poi fu smentito dai fatti, dalla strabordante vittoria del Leave. Uno degli argomenti usati contro il Leave era che Putin si sarebbe sfregato le mani, perché la Gran Bretagna ne sarebbe uscita indebolita, insomma chi era per la Brexit stava andando nelle braccia dell’orso sovietico. Un tradimento della patria. Non l’hanno bevuta. Greenwald vuol dire che argomenti così non li bevono neanche gli elettori repubblicani, e chi vota Trump ha più motivi nella situazione quotidiana e nel loro odio verso le élite di Washington piuttosto che importarsene di Putin e dell’Ucraina.
D’altronde, tra Trump e i media è odio reciproco. Trump ha centrato la propria campagna proprio contro i media «disgusting and corrupt». Durante le primarie, a Fairfield, Connecticut, disse: «Non sto correndo contro quell’imbrogliona – crooked – della Clinton, ma contro quegli imbroglioni – crooked – dei media».
Uno squarcio sui reali attuali rapporti tra utenti/cittadini e candidati può essere dato dai social network. Durante il secondo confronto televisivo tra Trump e Clinton alla Washington University di St. Louis ci sono stati diciassette milioni di tweet, con una moltiplicazione irrefrenabile di hashtag. È stato l’evento più twittato di sempre, dominato dalla discussione sulle posizioni sessiste e volgari di Trump nella ormai famosa conversazione “da spogliatoio” pubblicata pochi giorni prima dal «Washington Post». Però, il momento in cui il traffico si è impennato non è stato quando il confronto si è fermato su questo, bensì, nell’ordine: 1) quando Trump ha scaricato il suo vice Pence, criticando la sua posizione sulla Siria («I disagree, I disagree»); 2) quando Trump ha detto d’essere un gentleman e così cedeva alla Clinton il suo turno nelle risposte; 3) quando Trump ha detto che, ci fosse una sua presidenza, Hillary starebbe in galera.
È difficile dire se i tre momenti topici scatenassero più le ilarità o lo stupore, il tifo insomma, di elettori democratici o repubblicani. La distribuzione del flusso dei tweet è stata per il sessantaquattro percento quando parlava Trump e solo per il trentasei percento quando era il turno di Clinton. Si sa solo che – a confronto finito – Hillary ha aumentato il suo seguito di venticinquemila followers e Trump di sedicimila.
Ma il tweet più popolare proveniva dal professore Moustafa Bayoumi, che si riferiva all’invito di Trump ai musulmani di riferire alle autorità qualunque segnale di strane o pericolose manovre capitasse loro di intercettare. Dice così: «I’m a Muslim, and I would like to report a crazy man threatening a woman on a stage in Missouri / Sono un musulmano e dovrei segnalare che c’è un pazzo che minaccia una donna su un palco in Missouri».
Sarebbe piaciuto a Mark Twain.

Nicotera, 11 ottobre 2016

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