Siamo ancora noi italiani a migrare.

migrazione_italianaUna volta, almeno stavano attenti alle forme: «Il Governo belga curerà che le aziende carbonifere garantiscano ai lavoratori italiani convenienti alloggi in conformità delle prescrizioni dell’art. 9 del contratto tipo di lavoro; un vitto rispondente, per quanto possibile, alle loro abitudini alimentari nel quadro del razionamento belga; condizioni di lavoro, provvidenze sociali e salari sulle medesime basi di quelle stabilite per i minatori belgi». È il comma 3 del protocollo d’intesa del 1946 fra il governo italiano di De Gasperi e quello belga, in base al quale noi mandavamo minatori e loro ci davano carbone. Settant’anni fa. Noi, i nostri, li mandavamo a faticare in miniera: duemila a settimana gliene mandavamo. Per cinquantamila avevamo scritto, ma poi ce ne furono più di sessantamila. Loro ci davano il carbone per la nostra ricostruzione. Duecento chili al giorno per ogni uomo inviato, ce ne davano. Per le donne e i bambini non ce ne davano, questi non contavano. Nel 1956 fra i centoquarantaduemila minatori impiegati in Belgio, sessantatremila erano stranieri e, fra questi, quarantaquattromila erano italiani. Poi ci fu Marcinelle.
Alle 7.56 dell’8 agosto in una miniera denominata Bois du Cazier, situata a Marcinelle, nei pressi di Charleroi, una manovra dei vagoncini con il carbone si inceppa fra gli ascensori e provoca uno scontro con una putrella che trancia le condotte dell’olio e dei fili telefonici e dei cavi di tensione. Scoppia l’incendio, a mille metri di profondità. Il 22 agosto, alle tre di notte, dopo la risalita, uno di quelli che da due settimane tentano il salvataggio dichiara: «Tutti cadaveri». Lo disse in italiano, parlava di italiani. Persero la vita duecentosessantadue uomini, di cui centotrentasei italiani. Non era la prima volta che morivamo in così tanti: il 6 dicembre 1907 a Monongah, West Virginia, Usa, eravamo morti in centosettantuno; e nell’ottobre del 1913 a Dawson, New Messico, Usa, eravamo morti in centoquarantasei. E loro, gli americani, mica ci davano il carbone in cambio. Mica stavano attenti alle forme.
A Marcinelle, fra i morti, sessanta venivano dall’Abruzzo, uno dal Trentino Alto-Adige, e poi gli altri sparsi, sette dal Veneto, quattro dalla Calabria, per dire. Perché da noi si partiva da dovunque.
A leggere il Rapporto “Italiani nel mondo 2016” presentato a Roma dalla Fondazione Migrantes continuiamo a partire da dovunque. Il conteggio dei connazionali residenti all’estero ha raggiunto al 31 dicembre 2015 quota 4.811.163 (in dieci anni la mobilità italiana è aumentata del 54,9 percento), un dato che rispetto all’anno precedente è più alto del 3,7 percento. Significa che poco più di un italiano su 12 è emigrato. E il cinquanta per cento di questa migrazione ha origini meridionali: ci sono comuni come Licata e Favara, entrambi in Sicilia, nei quali più del quaranta per cento dei cittadini è ormai residente all’estero.
Nell’ultimo anno, 107.529 italiani hanno lasciato il Paese, diecimila in più rispetto all’anno prima; tra questi, i maschi sono in leggera maggioranza, oltre 60mila (56,1 percento). L’analisi per classi di età mostra che la fascia 18-34 anni è la più rappresentata (36,7 percento) seguita dai 35-49 anni; i minori sono il 20,7 percento, mentre il 6,2 percento ha più di 65 anni.
Si è emigrato soprattutto dal Sud – la Sicilia con 730.189 residenti è la prima regione di origine degli italiani residenti all’estero seguita dalla Campania, dal Lazio e dalla Calabria – ma il Rapporto Migrantes sottolinea che «si sta progressivamente assistendo a un abbassamento dei valori percentuali del Sud a favore di quelli del Nord del Paese. Ciò consegue dal fatto che il confronto tra i dati degli ultimi anni pone in evidenza una marcata dinamicità delle regioni settentrionali, in particolare della Lombardia e del Veneto». Insomma, continuiamo a partire da dovunque.
Partiamo giovani e pensionati, camerieri e ricercatori, laureati e appena scolarizzati, manovali e ingegneri, partiamo per l’Argentina, dove una pensione da mille euro vale ancora qualcosa, e partiamo per la Germania dove troveremo un minijob che qua rifiuteremmo ma che lì può funzionare come possibilità di inserimento, di progresso. Perdiamo cervelli e braccia, perdiamo memorie e speranze, perdiamo dialetti e saperi. Perché la verità è che da noi non c’è più mobilità sociale, e così i figli dei dottori possono fare i dottori e i figli dei notai possono fare i notai, ma per i figli dei ferrovieri, per dire, non c’è alcuna prospettiva, e quel pezzo di carta che una volta poteva significare un posto sicuro ora vale poco più che carta straccia, e allora tanto vale prender su e andare via. Magari un giorno si torna, anche se i numeri dicono che una parte di quelli che va via finisce con il fermarsi all’estero. Almeno sinora.
Almeno finché le liste di proscrizione fra britannici e non britannici (ariani e non ariani?) che propone il ministro degli Interni inglese Amber Rudd, appoggiato da Theresa May, non comincerà a introdurre dei criteri di selezione della razza. Servono pizzaioli? Possono tornare utili gli italiani. Servono muratori? Allora andranno bene polacchi e rumeni. Servono badanti? Allora vanno bene lituane e bulgare. Che so, centottanta badanti e duecento pizzaioli, l’anno, per dire. Potremo presentare delle domande, e ci controlleranno i denti e le unghie, le orecchie e la gola. Tornerà utile se impariamo a memoria God save the Queen.
Così, affoghiamo noi stessi nelle nostre sciocche e orribili posizioni per respingere in mare chi viene qui a cercare fortuna e possibilità fuggendo da guerra e miseria. La migrazione, la mobilità degli uomini non è a somma zero, non è che tu puoi alzare un muro da una parte e pensare che ti restino aperti tutti i valichi dall’altra: se cominci a discriminare, anche tu finirai per essere discriminato. Recentemente un rapporto sul commercio internazionale ha rilevato come siano cresciuti dazi e dogane, tariffe e protezioni, e questo proprio mentre si parla di nuovi accordi. Per le merci sta diventando sempre più difficile viaggiare – per il denaro no, e come ci appare lento oggi il muoversi del capitale d’un tempo – e così anche per gli uomini. La terra promessa del neoliberismo e della globalizzazione sta diventando un desolante territorio di passaggi fra guardiani occhiuti situati alle porte di accesso di ogni nazione.
God save us all! Che Dio ci salvi tutti.

Messina, 6 ottobre 2016

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2 risposte a Siamo ancora noi italiani a migrare.

  1. Monica Mazzitelli ha detto:

    Ecco. Grazie Lanfranco!

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