Matteo Renzi è un cavallo di razza. E non sto dicendo che sia un gigante della politica. Tutta la sufficienza del mondo (ci fu un tempo in cui D’Alema sembrava gli indicasse la sala d’aspetto, alzando il sopracciglio), tutto il sarcasmo della terra (bimbominkia eccetera), tutti gli accostamenti da photoshop (è un clone di Berlusconi, è un clone di Craxi), tutti i dietrologismi (l’ha messo là la massoneria toscana, europea, mondiale, planetaria), tutta la lettura “comunicativa” (è l’uomo degli annunci, ma non fa cose concrete, però intanto vince con ottanta euro, l’assunzione degli insegnanti e del personale ATA e con l’imu) si infrangono poi sul fatto che Renzi stia vincendo le sue sfide una dietro l’altra. Per criticarlo, per combatterlo, devo riconoscere la sua abilità, la sua fortuna, la sua determinazione. Non bastano le ambizioni caratteriali, le manovre di mondi oscuri che lo sorreggono, le congiunture favorevoli. Questo nemico ha del talento politico. A iosa. Se non parto da qui, dal riconoscere la sua grandezza, non vado da nessun parte. Posso strillare, sfottere, incazzarmi, insultare lui e il mondo che lo sostiene, prendermela con i vicini, con i dirimpettai che me ne parlano bene e rigargli le automobili o bucargli le ruote (non è detto che non lo faccia, prima o poi), ma non vado da nessuna parte.
Vorrei anzitutto sfatare un luogo comune, che Renzi abbia “rottamato” il Pd. Io non credo sia vero: il Pd – che si chiamava altrimenti – è stato rottamato da Cossutta (e Bertinotti in seconda battuta). Fu Rifondazione a tirare via dal Pd – che si chiamava altrimenti – la base dei vecchi militanti comunisti, le sezioni, quel che restava ancora, e solido, in base elettorale delle “mani callose”. Quello spirito – quello che animava le piazze comuniste di San Giovanni, e che ancora inondò il Circo Massimo con milioni di manifestanti convocati da Cofferati a difesa dell’articolo 18 e contro Berlusconi – ormai non aleggiava quasi più nel Pd. Le “Leopolde” di Renzi erano proprio un’altra cosa, in un certo senso l’opposto di Rifondazione. Mentre Rifondazione si rivolgeva al “comunismo de na vorta”, Renzi va subito in cerca di un altro soggetto sociale, più giovane, più brillante, più cinico, più dinamico. Spacca il quadro “socialdemocratico” del Pd – quando se ne accorge Civati, che stava con Renzi fin dall’inizio, se ne distacca – lasciandone una parte a Bersani e accaparrandosi l’altra, trattenendone la parte di liberalesimo e mollando quella di statualismo e socialismo alla tradizione emiliana, e a una buona parte del quadro dirigente. Renzi non punta al carattere “culturale” del ceto medio riflessivo, quello che Veltroni cercò di far diventare – con il Lingotto, l’americanismo, I care – il nuovo spirito del Pd, il cinema, i libri, le figurine Panini, le sue ossessioni giovanili, che non potevano vincere in un partito ancora popolare e, in misura, popolano, che sentiva più vicino a sé un D’Alema, per dire. Renzi non rifonda un partito, ma valorizza al massimo, facendone il suo nuovo carattere, quell’anima liberale (la preminenza del mercato, il peso dello stato sociale, il costo eccessivo della manodopera che ci fa stare indietro agli altri paesi e non ci farà mai intercettare la ripresa, la vecchiezza delle nostre istituzioni e delle sue leggi costituenti, il familismo del capitale italiano) che dentro il Pd era presente da un bel pezzo (per dire del “meglio”, come persona, uno come Ichino) ma contava poco, in termini di governo della macchina-partito. Questo ha fatto Renzi, ha potenziato, coagulandola e dandole un leader, l’anima mercatista e liberale che stava nel Pd da gran tempo. Poteva essere Letta questo leader, ma Letta è un uomo più votato alle istituzioni che a un partito, più uomo di incontri e convegni che d’azione, più professorino che carismatico. Quando il quadro dirigente intermedio ha capito che Renzi poteva farcela (dopo la prima sconfitta alle primarie) s’è spostato su di lui. La base comunista se n’era già andata, quella socialdemocratica era ormai solo meno di metà e comunque non sentiva Renzi come un nemico, piuttosto uno da tenere a bada, e quella liberale è diventata aggressiva: il momento era questo o mai più. Io dico: chapeau. Il residuo di vita socialdemocratica nel Pd è diventata minoranza restia, ritrosa, un rumore di fondo, nient’altro. Dico anche che Renzi è solo il terminale – e con questo non intendo sminuirlo, politicamente, anzi il contrario – di una lunga traversata di quel che fu “il partito comunista più forte dell’occidente”. Che non ci sia nulla in comune tra Berlinguer e forse persino Occhetto con Renzi non cambia la sostanza delle cose. Renzi ha sfilato un partito ai suoi capi e lo ha rovesciato: ma l’interno, il risvolto mica l’ha messo lui, c’era già.
Vorrei anche sfatare il luogo comune sulla spinta alla precarizzazione del lavoro impressa da Renzi. La precarizzazione del lavoro è cominciata da un bel po’, e la prima sistematizzazione risale a Tiziano Treu e al governo Prodi. Poi è stato tutto a scendere. Delle tre opzioni imposte dall’Europa all’Italia (riforma pensioni, riforma lavoro, riforma istituzionale), la prima l’ha fatta Monti (anzi, la Fornero), che è stato messo lì apposta, con lo spread che impazziva, manovrato, fino a renderla inevitabile. Fatto quel servizio, Monti non serviva più, la sua “tecnicità” era inabile a fare gli altri due passaggi. E Letta era sulla stessa strada, di “tecnico”. L’uomo giusto è Renzi. Questo, lo sapeva lui, e lo capivano anche in Europa. Gli hanno dato chance. E lui ha portato lo scalpo del Jobs act. che è vero, ha drogato l’economia per un po’ – d’altronde non è che i quantitative easing non siano droga – e mostra adesso un po’ la corda, però per quel po’ ha funzionato, e soprattutto ha funzionato politicamente per Renzi: è l’uomo “europeo” adesso.
Lo è in un modo elastico: la sua idea di eurobond per affrontare l’immigrazione è, bisogna ammetterlo, una buona idea. Sarebbe la prima volta che un “debito” viene messo in comune, che un investimento viene europeizzato. E, al di là, del senso politico della cosa, mi pare un modo pratico per reperire soldi senza che questo caschi nei conti di ciascuno Stato, e quindi facendo strada a populismi di natura nazionalsocialista. Certo, la Germania in prima battuta ha detto no – libererebbe intanto la Grecia da gravosi obblighi immediati verso di lei, a esempio – ma qualcuno ci va ripensando. In ogni caso, è stata una buona mossa. Come alzare i toni su quei limiti di parametri, che una volta per le banche, una volta per il deficit, ognuno sembra fare come gli pare, ma l’Italia non può.
Si sono sprecati i paragoni con Berlusconi – il cui declino però è anche addebitabile al fatto che mai avrebbe sfidato apertamente Renzi in competizione diretta, sapendo che fotogenicamente quello lo avrebbe battuto, perché giovane, futuribile, e lui stanco, del passato – ma io credo che c’entrino poco: Berlusconi, a parte il fatto di saper vendere saponette, non ha mai osato scontrarsi con il sindacato e quando l’ha fatto ci ha rimesso le penne. Berlusconi è stato divisivo, per il paese, nel senso anche che l’antiberlusconismo è diventato il cavallo di battaglia, antropologico direi, e una trappola della sinistra per vent’anni. Non c’è, né può esserci un uguale antirenzismo. E chi crede di battere Renzi come ha battuto Berlusconi, sostanzialmente per via giudiziaria, credo che sbagli. Comunque, affidarsi a questo – come già la sinistra si affidò per vincere Berlusconi – è un suicidio. Il clima è cambiato, nel paese. E affidare alla rendita del Movimento 5Stelle – come già si era pensato di affidare alla rendita della sinistra – l’attacco per via giudiziaria a Renzi, è un progetto catastrofista e irresponsabile. Poi, la vogliamo mettere su garantismo vs giustizialismo, ma la sostanza politica della guerra politico-penale è questa.
Anche il paragone con Craxi – e forse l’attesa di una nuova Tangentopoli – a me pare incongruo. Craxi dovette battagliare con due blocchi monolitici che avevano trovato un accordo per governare il paese, il compromesso storico di Pci e Dc. Renzi non ha avversari politici di quel valore e peso. Craxi aveva un background culturale e intellettuale di partito, una tradizione di tutto rispetto – cito qui, soltanto, Mondo operaio – i socialisti non erano solo Giusi La Ganga o Marietto Chiesa o Pillitteri. Renzi non ha ceto culturale, intellettuali di spessore, almeno non ancora. Certo, l’aggressività contro la tradizione picista sembra simile, però Craxi lottava davvero contro una tradizione comunista ancora forte e viva, Renzi s’è dovuto liberare e ha ancora un qualche intralcio di un’altra “tradizione” però geneticamente modificata, quella socialdemocratica. Cuperlo è più vicino a Saragat, quello sobrio, di quanto Berlinguer fosse vicino a Breznev, per capirci. Oggi non c’è la Balena bianca e non c’è neppure il partito di Berlinguer al 33 percento (con la sua questione morale, la sua alterità dell’essere comunisti – sembra uno di alterità, che so, Gotor, persona squisita per carità?)
A me l’unico paragone possibile che viene è quello con Amintore Fanfani – sarà la suggestione della toscanità, non so. Ma viene per questi rami qui: che come Fanfani si mosse nel solco della nazionalizzazione e nella pubblicizzazione (non solo l’energia elettrica, ma a esempio le case popolari), Renzi, al rovescio, si muove con la stessa determinazione sul piano della privatizzazione. Siamo d’altronde un paese al rovescio: quello degli anni Cinquanta, nato dalla Costituente, era il paese della Rinascita, un processo in cui uno come Di Vittorio non faticava a riconoscersi e a spendere le proprie energie, ora siamo il paese della Decrescita (e sia detto con il senso proprio, non con quello suggestivo ma scunchiuduto di Latouche).
Questo è il ragionamento che mi porta a ragionare su un altro paragone, e è con il blairismo. Una cosa da prendere con le pinze. C’è un punto comune forte: lo schianto del movimento operaio. Ora Blair non schiantò il laburismo inglese, se lo ritrovò a pezzi, la sua testa su un piatto d’argento. Erano stati la Thatcher contro i minatori e Murdoch contro i poligrafici a schiantare il movimento laburista inglese. E mi viene difficile dire che sia stato Renzi a schiantare il movimento operaio italiano. In realtà, è un processo lungo ma anche simbolicamente recente. E simbolicamente è stato lo scontro Marchionne contro Landini. E ha vinto Marchionne. Ha risanato la Fiat, ha aumentato i modelli e sta creando nuova occupazione, ha quotato in Borsa, è sbarcato negli Stati uniti e profittando di crediti a piene mani ha risanato un’azienda eccetera eccetera. Landini ha perso. Landini ha vinto una sola battaglia: in un tribunale, quando il pretore riammise i tre operai di Pomigliano d’Arco – che, peraltro, credo non abbiano mai lavorato, dopo. Landini ha perso migliaia e migliaia di iscritti alla Fiom. L’endorsement recente di Renzi a Marchionne è a cose fatte. Ora Blair riuscì nel suo portentoso mandato a fare quello che alla Thatcher non sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello, lei era davvero la figlia del bottegaio, e la sua idea di economia poteva essere il curioso riflesso – come d’altronde l’acconciatura e la borsetta sempre al braccio – di quello della regina Elisabetta: accumulazione del passato e prudenza. Blair invece fece della City il centro finanziario del mondo, attesa del valore futuro e rischio. Blair impersonificava, proprio fisicamente, questo. Renzi non può avere le stesse chance, sul piano dell’economia, che sia finanziaria o meno, ci provarono con il governo D’Alema i Lothar, ricordate: Palazzo Chigi come una merchant bank? Renzi dovrà perciò giocarsela sul piano politico, su un suo ruolo europeo, e non importa se con Hollande o Sarkozy o Juppé, e non importa, o forse è pure meglio, se la Brexit accade, anzi. Renzi può avere un importante ruolo in Europa, di dinamizzazione. E se questo passa, significa respiro economico per l’Italia. Non c’è un “piano di rinascita” per questo paese, e non credo che lui lo abbia, forse qualche ideuzza buttata là, senza gambe e braccia. Ma tra galleggiare un pelo sopra la crisi e galleggiare un pelo sotto la crisi, la differenza c’è, eccome. Tanto questo sarà, e mica solo per noi.
Questo è Renzi, perciò. Un cavallo di razza – come ce n’erano nella Democrazia cristiana, i morotei, i dorotei, la sinistra di base, i cristiano sociali, gli andreottiani eccetera eccetera, e come ce n’erano tra i comunisti – senza avversari. L’unico che può tenergli testa è un suo compagno di partito, D’Alema. Un po’ anche perché è l’unico che può spendere un ruolo – essere stato il presidente del Consiglio. Va ricordato che D’Alema diventò presidente del Consiglio per la scempiaggine di Bossi – che poi se ne pentì – e soprattutto per volontà di Cossiga, che era convinto fosse l’unico che potesse portare il paese nella guerra della Nato nel Kossovo. Cosa che fu. E io non so perché ma questo atteggiamento di prudenza di Renzi sulla guerra al terrorismo, in Siria, in Libia – a parte che lo trovo apprezzabile benché forse strumentale – mi pare sempre sia il risultato della contro-lezione di D’Alema.
Non troverete qui propositi e proposte di lotta e di organizzazione – io sono solo un gentiluomo di campagna, che a tempo perso s’occupa di cose pubbliche. Però troverete una considerazione temporanea: il referendum di ottobre non è il momentum, non è Hic Rhodus hic salta. Averlo impostato così – ormai la deriva mi sembra inarrestabile -, un terreno che ora Renzi sembra accettare, anche perché non c’è quorum, è un errore gravissimo di prospettiva. È l’ultima battaglia tra la minoranza dem e Renzi. Non è l’ultima battaglia per opporsi a Renzi, almeno non la nostra, “nostra” dico di me, dei miei gatti, dei miei uccellini, dei miei insetti, dei miei fiori. Una bella “armata”, comunque.
Nicotera, 20 aprile 2016
foto: da internazionale
Mio padre il giorno prima del referendum trivelle, un po’ timido, anzi scusandosi, mi ha detto che avrebbe votato no, perché così avrebbero votato D’Alema e Prodi e perché Goletta Verde ha sempre dichiarato l’Adriatico un mare pulitissimo con non so quante bandiere o vele o forse palle. Mio padre ha 85 anni. Poi sulla porta, dopo aver parlato un mezzo pomeriggio, mi ha detto: “Comunque sul referendum ci penso, voglio capire meglio anche quello che hai detto tu…”. Non importa avere anni 85 o 20 (e non sono certo io a permettermi di dire che sia la più bella età della vita, al netto di Nizan) ma c’è un momento in cui si illuminano piccole luci curiose e sagge intorno a te. Ecco ho idea che questa corona, questa teoria curva di luci non sia più accesa intorno alla sinistra (e dico tutta, guarda, tutta senza compatimenti, assoluzioni, giustificazioni e aggiungo che forse più spingevi a sinistra e più ‘ste lucine diventavano flebili fino a spegnersi) almeno dalla metà degli anni 80 – ed anche li era arrivata a fatica, passando per la extraparlamentarietà e per l’aborto e per i matti di Basaglia – ma dall’allora “migliore dei mondi possibili” non si è più riavuta. Luci spente tra i sindacati che hanno barattato i diritti con i privilegi, costruito nomenclature asfittiche e corporazioni apatiche. Luci spente su classi nuove di lavoratori nuovi, su nuovi lavori, su nuove idee. Luci spente su un paese spento. Renzi – sarà per via di tutto questo rocambolesco alternarsi di banche e petrolieri – è l’uomo nuovo dei nuovi auspicati anni ’60, a bordo di un Lancia Aurelia B24, aggressiva, prepotente, truccata nel motore e negli allestimenti. Verso un nuovo sorpasso. Alla fine queste imperscrutabili righe le ho scritte per dire, semplice, che sono alquanto d’accordo con te.
grazie. per due cose: per i pensieri. per averli pensati e offerti. e per l’immagine della lancia aurelia.
Renzi è una brenna. Ma lo capiremo troppo tardi.