Oggi, Bernie Sanders parlerà in Vaticano. È stato invitato dalla Pontificia Accademia delle Scienze sociali, in occasione dal 25mo anniversario dell’enciclica Centesimus Annus, pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1991, a sua volta per il centenario della Rerum Novarum di Leone XIII, che aprì la chiesa al confronto con i movimenti sociali del lavoro, insomma alla questione del socialismo. Sanders è invitato a dire la sua, su come il mondo sia cambiato dal 1991 a oggi, su giustizia sociale, sostenibilità economica, ambiente. In un’intervista al «Guardian», Sanders ha anticipato gli argomenti di cui dirà, contro “the idolatry of the money” e la necessità di ricostruire un senso morale nell’economia globale, perché non può più tollerarsi un’economia che produce così tanta povertà. Sono, peraltro – benché il «Washington Post» storca il naso alla “moral economy” di Sanders e Francesco –, i suoi cavalli di battaglia nella corsa alla nomina del Partito democratico per le presidenziali, argomenti che gli hanno fatto guadagnare un inaspettato consenso nel confronto contro Hillary Clinton. Negli ultimi giorni, la lotta tra i due candidati si è accesa anche troppo, con reciproche accuse di “incapacità”, soprattutto per quel che riguarda l’estero, tanto che è dovuto scendere in campo il presidente Obama a placare gli animi, e a non veder sfumare il vantaggio sinora acquisito nel presentare un partito serio e compatto rispetto ai Repubblicani, dilaniati da una guerra di tutti contro tutti. Lo zio Bernie comunque l’invito ce l’ha e non è un imbucato – ricordate le polemiche per Ignazio Marino, che costrinsero il papa a essere esplicito? Però, questa sua disinvoltura nel capitalizzare immediatamente il suo invito in Vaticano ha infastidito chi tiene le rigide regole del protocollo, sì che si è dovuto rimarcare che l’invito non viene dal papa ma dall’Accademia e che non è previsto alcun incontro tra Sanders e Francesco.
Tra quattro giorni si vota per le primarie democratiche nello Stato di New York, e il pacchetto di delegati è davvero consistente, forse può determinare questa corsa alla candidatura. La Clinton è sempre più nervosa – un recente sondaggio tra gli elettori democratici rileva che per il trenta per cento è considerata “untrustworthy”, come dire, non degna di fiducia, percentuale che scende al cinque, nel caso di Sanders; anche se questo non significa nulla di per sé, in molti considerano una virtù che i politici siano poco trasparenti, anche se non l’apprezzano. È comprensibile, perciò, al di là della sincera attenzione verso l’operato e il parlare di questo papa, che Sanders abbia deciso di venire in Vaticano magari per guadagnare qualche consenso di riflesso tra i cattolici dello Stato di New York – ha detto: «Se pensate che Bernie Sanders sia un radicale, leggetevi che cosa scrive il Papa…» – dove tornerà sabato.
Però, a me sembra interessante, e molto, questo vedersi qui delle due Americhe. All’incontro della Pontificia Accademia delle Scienze sociali sono invitati, oltre a Sanders, anche il professor Jeffrey Sachs della Columbia University – nel 2004 inserito dalla rivista «Time» tra i 100 uomini più influenti, e che si dedica da tempo alle questioni della difesa dell’ambiente, di un’economia sostenibile, della lotta alla povertà e alla fame, e che al Vaticano, diciamo così, è di casa – e anche Evo Morales, presidente della Bolivia, e Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, due uomini decisamente democratici e riformatori e attenti alle economie dei loro paesi e dei loro popoli. Il continente americano – e come non considerare anche che Francesco viene dall’Argentina, e di questa sua biografia ha fatto segno del proprio mandato di papa – si incontra qui, in Vaticano, in Europa. È singolare, considerando che da un bel po’ – e le ultime due presidenze degli Stati uniti, e Bush e Obama, benché per motivi opposti, non hanno mostrato gran attenzione e interesse per quel che succedeva qui – l’America guarda poco all’Europa.
Nel suo viaggio apostolico di settembre dell’anno scorso, quando passò da Cuba e poi negli Stati uniti, Francesco incontrò tutto il Congresso riunito rivolgendosi con parole forti, parlando della crisi dei rifugiati, dei fenomeni delle migrazioni nel mondo: «On this continent too, thousands of persons are led to travel north in search of a better life for themselves and for their loved ones, in search of greater opportunities. Is this not what we want for our own children?», in questo continente, migliaia di persone hanno viaggiato verso nord in cerca di una vita migliore per i loro cari, in cerca di migliori opportunità; non è esattamente quello che vogliamo noi, per i nostri figli? E definì così lo “spirito americano”: «We, the people of this continent, are not fearful of foreigners, because most of us were once foreigners», noi, popolo di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta erano stranieri. Francesco, lo sanno pure le pietre, è egli stesso figlio di immigrati. E a febbraio, nel suo volo di ritorno dal Messico rispose così a una domanda dei giornalisti a proposito dei “muri” che il candidato repubblicano Donald Trump si proponeva di innalzare sui confini degli Stati uniti per risolvere il problema della migrazione: costruire muri «is not christian».
Morales, Corea, Sanders, Bergoglio. Sembra proprio una bella squadra, una bella squadra americana. Che viene da quello straordinario continente che è l’America.
Ci sono due zii in quella squadra: Francis e Bernie. Una volta gli zii d’America erano, per noi meridionali, quelli che mandavano qualche dollaro in una busta, per natale e le feste comandate. Beh, il mondo può anche essere messo sottosopra da due vecchi zii, no?
Nicotera, 14 aprile 2016
pubblicato su il dubbio – quotidiano, 15 aprile 2016
foto da politico.com