Addio Juncker, Merkel, Hollande. Arriva Nizar Qabbani.

Michel HouellebecqI trisavoli di Elisabetta d’Inghilterra erano un Sassonia-Coburgo-Gotha, da parte paterna, e un Sassonia-Gotha-Altenburg, da parte materna. Ma c’è anche sangue degli Hannover, per via della regina Vittoria, e dei Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glücksburg, per via del principe Alberto, e poi dei d’Assia-Kassel e dei Meclemburgo-Schwerin. Il “casato Windsor” è un’invenzione recente, allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando tutti i cugini d’Europa si armarono l’un contro l’altro, e prende il nome da un pezzo di campagna inglese. Suonava stonato esortare gli inglesi a combattere contro i reali tedeschi che portavano il loro stesso cognome. Un po’ come per tutte le corone d’Europa. Dai Romanov ai reali di Spagna a quelli di Olanda e Danimarca e Grecia. Tutti parenti. Parenti serpenti.
E prima c’erano stati gli Asburgo e i Lorena e i Borbone, nelle varie combinazioni dovute ai matrimoni tra cugini, e casati che si frammentavano e si dividevano.
Tutto questo è sopravvissuto a Oliver Cromwell e alla sua decisione di decapitare Carlo I – tanto per mettere una cesura nella storia – e anche a Robespierre e alla sua decisione di tagliare la testa a Luigi XVI e Maria Antonietta, così da poter cominciare a nominare mesi e anni in un nuovo modo, a contare la storia in un modo nuovo. È sopravvissuto anche a Bonaparte e persino alla fucilazione dei Romanov contro un muro a Ekaterinburg. Sopravvissuto, ma certo come una forma, un guscio vuoto. La borghesia – quella panciuta e abbuffona di Balzac, quella ipocrita e affarista di Charles Dickens – ci ha messo un po’ di secoli, ma alla fine ce l’ha fatta a scrollarseli di dosso.
Chissà se è di quel tempo – quello dei cugini sovrani d’Europa – che tiene rimpianto Michel Houellebecq, lui che ha a noia la democrazia, l’economia, il mercato. I diritti, la laicità, tutte stronzate, svuotate ormai di senso. Nel suo ultimo libro, Sottomissione, Houellebecq racconta la campagna presidenziale francese del 2022, un futuro neanche tanto lontano, in cui mentre infuriano i disordini e la guerra civile sembra imminente – fra assalti ai seggi, scontri in piazza, attentati – i partiti democratici di destra e di sinistra, socialisti, gollisti, centristi, si alleano per sbarrare la strada a Marine Le Pen, facendo convergere i loro voti sull’islamico moderato, Mohammad Ben Abbas, fondatore del partito della Fraternità musulmana. Ben Abbas è laureato al Politecnico e poi all’École normale supérieure, insomma sarebbe potuto essere nell’élite che fa da ossatura allo Stato repubblicano. Lentamente e inesorabilmente, Abbas imprime una svolta islamista alla Francia. E i francesi vi si sottomettono. Come il protagonista del libro. Una volta Houellebecq ha detto in un’intervista: «I miei personaggi non sono né ricchi né celebri; non sono nemmeno degli emarginati, dei delinquenti o degli esclusi. Si possono trovare delle segretarie, dei tecnici, degli impiegati, dei quadri. Persone del tutto medie, a priori poco attraenti da un punto di vista romanzesco». Ecco, queste «persone del tutto medie» si sottomettono. Un po’ perché stanchi, un po’ per quieto vivere e un po’ per interesse proprio.
Il libro ha creato grande scandalo – e la tradizione giudaico-cristiana, e i Plantageneti e Roncisvalle –, e dopo gli eventi di gennaio, con gli attacchi a Charlie Hebdó e al supermercato kosher di Porta di Vincennes, Houellebecq si è rifugiato da qualche parte rifiutando interviste e presentazioni. E quando è iniziata la Grande migrazione, dal Sud, da Est, l’incubo dell’islamizzazione dell’Europa – quello paventato da Houellebecq – è sembrato vicino.
Eppure, sai che scandalo, immaginare che un arabo di seconda generazione possa diventare presidente francese. Dovrebbe essere una cosa normale, no? Per la stupida grandeur francese, per il loro maledetto passato coloniale, evidentemente no. Hanno tagliato la testa a Luigi XVI e Maria Antonietta ma la grande borghesia francese, quella che cresce nelle grandi scuole dove si forma la classe dirigente, non ha alcuna intenzione di mollare la presa.
La più grande potenza del mondo, gli americani, ha un presidente che di nome fa Barack e di cognome fa Obama. Figlio di un kenyota, cresciuto alle isole Hawaii. Ancora oggi, fra i repubblicani e l’estrema destra, c’è chi mette in dubbio la sua nazionalità americana, il suo certificato di nascita. Come se fosse Arnold Schwarzenegger, governatore della California, che non poté correre per le presidenziali perché non era nato negli States, ma in Austria.
Gli Stati uniti sono un paese di immigrati. Padri pellegrini, coloni, irlandesi affamati, coolies miserabili, italiani dago e tutti gli altri hanno fatto grande un paese sterminato e selvaggio. E non hanno mai avuto un re.
Da noi europei gli immigrati non hanno speranza, come fossero ancora solo minatori, operai, braccia da lavoro. Eppure, fino all’anno scorso, il primo ministro belga era un figlio di immigrati, il socialista Elio Di Rupo, il padre era venuto dall’Abruzzo negli anni Cinquanta. Chissà se domani uno di quei profughi siriani arrivati a Budapest e incamminatisi verso l’Austria e la Germania non possa diventare governatore di un Land. Che so, uno che di nome fa Abd al-Rahman al-Shaghouri, governatore della Sassonia. Oppure, uno che di nome fa Nizar Qabbani, sindaco di Monaco.
E magari uno che di nome fa Mohamed Aden Sheikh, presidente della Commissione europea. Tutto sommato, suona meglio che averne uno che di nome fa Juncker.

Nicotera, 8 settembre 2015

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