Germania e Ungheria sono ai ferri corti. Il primo ministro ungherese Orban accusa la Merkel di avere provocato lei i disordini tra i profughi siriani accampati a Budapest, per avere deciso di accoglierli tutti. La Merkel tuona contro chi vuole abolire il trattato di Schengen, che permette la libera circolazione di uomini e merci in Europa, e contro chi continua a costruire muri di filo spinato, a piombare furgoni, a segnalare identità sulle braccia – è l’orrore storico da cui la Germania del dopoguerra ha scavato un abisso di distanza e di senso di colpa.
«Con gli ungheresi, politicamente, non c’era da scherzare». Lo scriveva Robert Musil, negli appunti preparatori de L’uomo senza qualità – il romanzo che racconta l’ultimo anno della società viennese prima dell’inizio della fine dell’Impero austro-ungarico, ovvero da quella famosa «bella giornata d’agosto del 1913» fino allo scoppio della Grande Guerra. La fine dell’Europa come la si conosceva fino alla Prima guerra mondiale. Il pensiero – Con gli ungheresi, politicamente, non c’era da scherzare – Musil lo mette in testa al conte Leinsdorf, motore propulsore dell'”Azione Parallela”.
Nell’alta società viennese si era formato un comitato per preparare le celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe, ricorrenza che si sarebbe dovuta festeggiare nel 1918. Parallelamente a questo anniversario (e per questo si chiama “Azione parallela”) si sarebbero celebrati anche, insieme ai fratelli amati–odiati germanici, i trent’anni di reggenza dell’imperatore tedesco Guglielmo II. Dopo cinque lunghi anni di preparativi bizzarri e inconcludenti – tra i quali, l’idea della fondazione di un grande “Istituto austriaco Francesco Giuseppe per la distribuzione della minestra” –, nel 1918 non ci sarebbe più stato niente da festeggiare. La guerra aveva distrutto quel mondo.
Austria e Ungheria erano allora una cosa sola, benché la prima fosse l’Impero austro-ungarico – la parola “Austria” era stata bandita – e la seconda, il Regno d’Ungheria. Insomma, era una Doppia Monarchia, con gran difficoltà dei sudditi, i quali «dovevano sentirsi patrioti austro-ungarici imperiali e regi, ma nel contempo ungarici-regi oppure austriaci imperial-regi», è sempre Musil. La Doppia Monarchia era una specie di mistero uguale a quello della Santa Trinità. E fu per questa “lacuna linguistica” che l’Impero andò a puttane.
Tutto il “cuore” dell’Europa andò a puttane, la Germania, la Romania, la Bulgaria, giù giù fin dal mar Baltico al mar Nero. Le terre bagnate dal Danubio. Era questa la Mitteleuropa, l’Europa del centro, il centro dell’Europa, l’Europa di mezzo. In realtà, la Mitteleuropa non è mai esistita, o ha significato cose assai diverse: chi la pensa come Europa danubiana – i dieci Paesi bagnati dal Danubio, in pratica dalla Germania all’Ucraina, passando per Austria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Serbia, Bulgaria, Romania, Moldavia – e chi vi include i paesi baltici. Ma la vera questione della Mitteleuropa è sempre stata l’influenza e la potenza della Germania. Il timore è sempre stato quello che la Mitteleuropa non foss’altro che una Grande Germania. E questo era il timore non solo delle nazionalità danubiane, ma anche di tutti gli altri Stati europei.
Ci si dimentica che il più strenuo avversario di un qualunque accordo austro-tedesco sia stato Mussolini, che vedeva di malocchio la possibilità che truppe tedesche stazionassero al Brennero. «L’Italia non potrebbe mai tollerare il paradosso che l’unica nazione che aumenterebbe i suoi territori, la sua popolazione, sarebbe la nazione sconfitta nella guerra». Arrivò, Mussolini, a finanziare formazioni fasciste austriache perché fronteggiassero le formazioni paramilitari naziste; arrivò, Mussolini, a sostenere una svolta fascista del governo austriaco purché rimanessero fuori i nazionalsocialisti; arrivò, Mussolini, a minacciare di intervenire militarmente se la Germania avesse preso l’Austria. L’Italia aveva siglato una serie di accordi con il governo ungherese, accordi commerciali. Mussolini faceva di tutto – anche un trattato con i francesi, preoccupati quanto lui – perché non passasse una qualsiasi forma di pangermanesimo, un’estensione della Germania sulla Mitteleuropa. Poi, si piegò a Hitler.
Mentre finiva la Prima guerra, in Ungheria (e Austria) si discusse a lungo di un’unione doganale con la Germania – l’idea di mettere assieme centoventi milioni di persone e costituire così una potenza invincibile era molto allettante. Alla Germania interessava l’accesso verso l’Asia minore, la Turchia, e i Balcani; l’Ungheria poteva trarre vantaggio da tutti i sistemi di modernizzazione dell’industria e dell’agricoltura tedesca. I più favorevoli erano i grandi latifondisti ungheresi, i finanzieri, gli speculatori, che speravano così di fermare il movimento sociale e nazionale che li attaccava. C’erano, insomma, grandi complicazioni economiche – i dazi, le tariffe, l’export che si sarebbe sovrapposto tra le industrie nazionali – ma una necessità politica urgente.
Ma dovevano aver fatto male i conti, i grandi latifondisti ungheresi: dalla Germania venne vento di rivolta, verso tutta la Mitteleuropa. Tutto era iniziato verso la fine del ’18, quando ormai la Germania aveva compreso di aver perduto la guerra ma i comandi militari ciecamente volevano continuare a combattere. Solo che i marinai non ci sentivano più da quell’orecchio. E così si rivoltarono. La rivolta di Kiel si diffuse a tutta la Germania, arrivò a Berlino. Ovunque nascevano Consigli degli operai e dei marinai, ovunque manifestazioni popolari – a Berlino manifestarono per più giorni di seguito in cinquecentomila – chiedevano la fine della guerra e la fine della monarchia. Chiedevano una Repubblica. La Russia aveva dimostrato che si poteva fare.
È così che nasce la rivolta spartachista. A novembre 1918, dopo che il Kaiser è scappato in Olanda (dev’essere un vizio dei reali, questo di fuggire quando l’aria si fa calda), sono i socialdemocratici gli unici che sembrano in grado di tenere assieme la Germania, di tenere buoni operai e marinai. Così, Ebert, il capo socialdemocratico dichiara: «Il vecchio e il marcio, la monarchia è crollata. Viva il nuovo. Viva la repubblica tedesca!». Neanche un paio d’ore e Karl Liebknecht, capo della Lega Spartachista insieme a Rosa Luxemburg, al Giardino zoologico di Berlino davanti a una gran folla radunata, dichiara: «Il dominio del capitalismo, che ha trasformato l’Europa in un campo di cadaveri, è spezzato. Compagni, io proclamo la libera Repubblica socialista di Germania».
E così, dopo un Impero, nella stessa Germania, ci saranno due repubbliche, una socialdemocratica e una comunista. E sarà quella socialdemocratica a ammazzare – letteralmente, Liebknecht e la Luxemburg verranno rapiti e uccisi dai Freikorps, ex-soldati “sciolti” mobilitati da Ebert – quella comunista.
Dura un pugno di giorni la Repubblica spartachista, dal 4 al 15 gennaio del 1919. Non molto di più dureranno le rivolte a Brema e Monaco, solo il mese di maggio, e le rispettive Repubbliche. Sempre stroncate, militarmente, dai socialdemocratici. Solo che ormai la rivolta si va estendendo alla Mitteleuropa. Dalla Germania all’Ungheria non arriva pace sociale, come speravano i latifondisti, ma lotta di classe.
In Ungheria sarà Béla Kun, il comunista un po’ eretico, quello che con Terracini e Zinoviev e altri formeranno il gruppo convinto che l’offensiva rivoluzionaria vada portata avanti con tutti i mezzi, e che Lenin guarderà sempre con sospetto, a guidare la rivolta, a proclamare la Repubblica dei Consigli. Durerà poco anche questa – e i sovietici, che hanno già una guerra civile da fronteggiare contro i bianchi, non ce la faranno a dare agli ungheresi una mano, impantanati dai polacchi, che li fermano; nel 1956, invece, i carri russi arriveranno, ma stavolta a stroncarla, la rivolta – dal 21 marzo ai primi di agosto.
Se una Mitteleuropa c’è stata, è stata quella delle rivoluzioni di quel periodo, in cui parlare tedesco non era più segno e timore del pangermanesimo, ma lingua franca e libera di rivoluzionari. È curioso che le due rivolte più importanti, quella tedesca e quella ungherese, siano state guidate da due comunisti eretici. E ebrei. Era questa d’altronde l’unica Mitteleuropa reale, quella che si richiamava alla grande cultura ebraica – in Germania, Austria, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, senza contare la Russia, quella che da sempre sopravviveva ai pogrom contro gli shletl –, alla rivolta contro il Faraone, all’Esodo. La Luxemburg aveva scritto anche articoli di scetticismo verso Lenin e l’autoritarismo che si stava imprimendo alla rivoluzione russa; e lo stesso era per Béla Kun, che Lenin irrideva apertamente per quella sua smania di rivoluzione – les bêtises de Kun, dirà un giorno, le idiozie di Kun – e quel suo gruppettarismo – li chiamava “i Kuneristi”, i vari Terracini e Zinoviev. Persero entrambi, certo. Chissà come sarebbe stato il socialismo reale, se invece avessero vinto loro, dalla Germania all’Ungheria, gli eretici, gli ebrei rivoluzionari. Chissà come sarebbe stata l’Europa.
Ma nella Mitteleuropa si poteva essere ebrei senza per questo essere necessariamente rivoluzionari. Ogni volta che passava da Vienna Franz Kafka andava allo stadio a veder giocare l’Hakoah, la squadra tutta ebraica con la maglia a strisce bianche e blu e la stella gialla sul petto. Erano a migliaia, gli ebrei sugli spalti. A vedere giocare tra i più forti d’Austria. Tra loro, militava quel Bela Guttmann, ebreo di Budapest, che si salverà dai campi di sterminio, e porterà in giro per il mondo il 4-2-4, il Grande Modulo Magiaro. Lo porterà, da allenatore, anche in Italia, al Milan, e in Portogallo, al Benfica, con cui vincerà due Coppe dei Campioni, e poi in Brasile, al San Paolo, e poi in Uruguay al Peñarol. Un caratteraccio, Guttmann, e sempre attento agli ingaggi – litigò al Milan, litigò al Benfica, litigò al Peñarol, altro che Mourinho. Quando i nazisti si prenderanno l’Austria, con l’Anschluss, quel campo di calcio diventerà il primo internamento per gli ebrei.
E sarà su un campo di calcio che Germania e Ungheria incroceranno di nuovo le loro storie. 1954, campionati del mondo in Svizzera, quelli in cui gli svizzeri – gli svizzeri – ci mandarono presto a casa con un sonoro 4 a 1. L’Ungheria era considerata la grande favorita per la vittoria finale; la chiamavano la “squadra d’oro” dato che aveva imposto negli ultimi anni una netta superiorità tecnica e tattica. Aveva vinto l’oro olimpico nel 1952, la Coppa Internazionale 1948-1953 e, nello stesso anno, aveva espugnato Wembley battendo l’Inghilterra 6-3, diventando la prima squadra non britannica a battere gli inglesi in casa loro. La squadra d’oro era imbattuta da quattro anni e ventotto gare. Dei tedeschi si sapeva poco – nel 1950 la Fifa non li aveva fatti neppure partecipare ai campionati del mondo, perché la guerra era ancora troppo vicina –, ma non erano considerati certo uno squadrone. Finale. Dopo otto minuti stanno 2 a 0. Per l’Ungheria. Avevano segnato Puskás e Czibor. Sembrava fatta. Ma coi tedeschi non è mai fatta. Tennero duro tutto il primo tempo. Quando tornarono in campo per il secondo tempo, sembravano indemoniati. Pareggiarono, e poi a pochi minuti dal termine segnarono il 3 a 2 definitivo. I tedeschi erano campioni del mondo. Si discusse a lungo – se ne discute ancora oggi – di quella prestazione tedesca. Di certo, poco dopo la finale una misteriosa infezione itterica colpì diversi calciatori tedeschi. Si parlò di doping, ma ormai quella partita era “il miracolo di Berna” e era diventato motivo di orgoglio e riscatto per un’intera – no, per la verità, metà, che l’altra metà era sotto il tallone sovietico – nazione, dopo la sconfitta militare. Il governo comunista ungherese accusò l’occidente capitalistico di complotto. All’Ungheria restò il record, tuttora imbattuto nonostante si giocarono solo cinque partite contro le sette di adesso, di reti segnate in una singola edizione: ben 27. Era proprio una squadra d’oro.
Germania e Ungheria sono di nuovo ai ferri corti. Giocassero a calcio forse non ci sarebbe partita oggi, che la Germania è davvero uno squadrone. Però, hai visto mai.
E forse è meglio pensare a un confronto di questo genere, che a quelli che la storia ci ha consegnato.
Nicotera, 3 settembre 2015