Anatolij e Kamara, l’eroe e il bastardo: storie di migranti.

korov_castello_cisternaUno muore ammazzato, l’altro ammazza. Uno sacrifica la propria vita, l’altro ruba la vita d’altri. Uno si mette in mezzo una rapina, l’altro commette una rapina. Uno ha lasciato la propria vita per trecento euro di merda, l’altro ha rubato due vite per due cellulari di merda. Per uno ci sarà il lutto cittadino, un’intera comunità si stringe attorno la moglie e i tre figli rimasti, vorrebbero portarsi al petto quel corpo esanime e abbracciarlo, baciarlo, cullarlo; per l’altro ci sarà il carcere, il processo, la condanna e una intera comunità cittadina che vorrebbe strozzarlo con le proprie mani. Per uno, il paese vuole che il suo corpo rimanga qui, per poterlo onorare come si fa con i propri cari, portando un fiore ogni tanto e pulendo bene tutto intorno, e raccontando qualcosa ai più piccoli; per l’altro, se potessero, lo getterebbero in una forra, a fare cibo per cinghiali e cani rinselvatichiti, che se ne perda proprio ogni traccia di passaggio sulla terra.
Uno, l’angelo, si chiamava Anatolij Korov, 38 anni, operaio ucraino ucciso la sera del 29 agosto. Era andato al supermercato con la figlioletta a fare la spesa. Anatolij vive da anni a Castello di Cisterna, provincia di Napoli. Quando il lavoro c’è fa il manovale, quando non c’è fa tutto. In paese lo conoscono tutti, e tutti lo chiamano: devi pitturare un balcone? Chiami Anatolij. Devi tagliare l’erba del giardino? Chiami Anatolij. Devi rimettere a nuovo le persiane, che il sole e il maltempo hanno rovinato il legno? Chiami Anatolij. È bravo con le mani, Anatolij, è affidabile, pulito, e non si fa pagare troppo.
Anatolij aveva già pagato il conto. Era uscito dal supermercato e ha incrociato i rapinatori. Avevano in testa un casco e il volto coperto di maschere. Anatolij ha capito. Ha messo la bambina nel carrello della spesa – chissà cosa gli sarà passato per la testa, chissà cosa le avrà detto, è un gioco, aspettami qui, ora papà torna – è rientrato e si è lanciato sui rapinatori. Ne ha bloccato uno mentre stava prendendo i soldi dalla cassa, con la commessa terrorizzata. L’altro, allora, lo ha prima colpito con un ferro, o qualcosa, poi gli ha sparato, al petto, alle gambe. I due sono scappati, con il loro “bottino”. Trecento euro. Anatolij è morto per trecento euro. Anatolij è morto perché non gli sembrava giusto che la gente, quella che lui salutava ogni mattina, quella che lo salutava ogni sera, venisse terrorizzata per trecento euro di merda.
L’altro – se le indagini troveranno conferma, per ora è accusato solo di ricettazione –, il bastardo, si chiama Kamara Mamadou, viene dalla Costa d’Avorio e ha diciott’anni. All’ingresso del Cara, il Centro di accoglienza, di Mineo, in un controllo, gli hanno trovato in un borsone due cellulari e un pantalone sporco di sangue. Kamara ci vive al Cara, aspettando. Tutti ci vivono aspettando. Il Centro potrebbe ospitarne duemila ma sono più di tremilacinquecento. E continuano a arrivare. Nessuno sa dove metterli, così li mettono al Cara di Mineo. Nessuno sa cosa farne, così li lasciano al Cara di Mineo. A aspettare. C’è un sacco di gente che s’è fatta ricca col Cara di Mineo. No, non negri. Bianchi, bianchissimi: quando Salvatore Buzzi s’è messo a parlare col magistrato di Mafia Capitale un giorno ha chiesto che venisse spento il registratore, che se parlava “cadeva il governo”; è così che è saltato fuori l’impiccio dei migranti, e i bandi di gara milionari fatti col trucco – “sartoriali” dice Buzzi, fatti su misura – e soldi sparsi a piene mani e voti che cadevano come pioggia sottile, fitta, abbondante. Kamara vive là. Ci mangia, ci dorme. Non fa altro. Qualcuno s’è industriato. Raccolgono vestiti nei cassonetti, quello che noi buttiamo via, e mettono su una specie di mercatino dell’usato sulle strade intorno a Mineo. Qualcuno vende acqua minerale, ricariche di cellulare. Sempre meglio che non fare un cazzo tutto il giorno e morire lentamente. Quando hanno fermato Kamara, sul momento nessuno ci capiva granché, però sembrava strano che avesse due cellulari, un portatile. Poi, dai cellulari sono risaliti ai proprietari, e allora sono andati per vedere che succedeva. Hanno bussato alla villetta di Palagonia, Catania, ma nessuno rispondeva. È così che hanno trovato morti i due coniugi, nella loro villetta, c’avevano messo una vita di lavoro per tirarla su. Una rapina. Qualcosa che doveva andare facile e che invece è diventato una bestialità, la donna scaraventata dal balcone, lui colpito ripetutamente. Così, l’hanno fermato, al bastardo. Aveva addosso i pantaloni dell’uomo ammazzato, i suoi erano sporchi di sangue e se l’era tolti. Ha detto che ha trovato tutto sotto un albero. Si sarà convinto che abbiamo l’anello al naso.
Mentre Anatolij moriva, Kamara uccideva. Come succede ogni giorno della vita da che mondo è mondo e mentre qualcuno da qualche parte abbraccia il fratello, qualcun altro in qualche altra parte pianta il coltello nella schiena a un altro uomo. Ma succede qui da noi, in una terra già martoriata da sempre, Palagonia e Castello di Cisterna stanno nel nostro Meridione. Dove tutto da sempre e ancora oggi è emergenza – se piove, se fa caldo, se tira vento, se manca il lavoro, e la scuola, e le strade, e la sanità – e tutto si fa senza Stato, e si va avanti senza istituzioni, senza regole, se non quelle che riesci a mettere assieme in una comunità. E l’immigrazione. Perché il Sud è diventato terra di frontiera, terra di nessuno, nobody’s land, prima linea di una guerra dichiarata altrove. L’immigrazione.
Arrivano ormai interi villaggi, intere etnie. Pezzi di nazioni si staccano dall’Africa, dal Medio oriente per venire qui. È come se la placca africana stesse provando a riavvicinarsi alla placca europea, da dove s’era separata miliardi di anni fa. Le terre si muovono sotto il Mediterraneo, su quelle terre camminano i nuovi migranti. Sono un terremoto di proporzioni mai vedute, sono una catastrofe, sono una calamità. Sono una benedizione.
La migrazione non è come la via Romea. Questi non vanno a Santiago di Compostela. La migrazione non è un pellegrinaggio, per chiedere una grazia, o completare un voto fatto. Qui arriva di tutto. Arriva il buono e il malvagio, angeli e bastardi, brave persone e infami, arriva Abele e arriva Caino. Come era per noi, quando Joe Petrosino, il miglior poliziotto d’America, combatteva contro la Mano nera per dimostrare che gli italiani non erano tutti dago, tutti mafiosi, tutti bastardi.
Cosa faremo? Li mitraglieremo tutti? Li affogheremo tutti? Salveremo i cristiani e ammazzeremo i musulmani? Lanceremo una “laica crociata” – ah! no, Francesco non starà dalla nostra parte – e grideremo: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi»? Faremo come l’Ungheria, con muri e filo spinato? Li costringeremo a indossare una stella gialla?
Nessuno li vuole. Non li vuole la Germania, non li vuole l’Inghilterra, non li vuole la Francia, che già ne hanno troppi. Nessuno nel nord dell’Europa li vuole. Dove li metterebbero? In un qualche Cara vicino Dortmund o Stoccolma? Nessuno sa che farsene. Chiedere che l’Europa se ne occupi, è come in quei film di guerra quando gli assediati chiedono dove sono i rinforzi promessi e capiscono che nessuno arriverà. Tocca a noi. Non è più il tempo delle saline in Francia, delle miniere di carbone in Belgio, delle fabbriche di Colonia e Düsseldorf. Non servono più braccia. Sono servite. Erano braccia meridionali, italiane, portoghesi, spagnole, greche, turche. I negri arrivano al momento sbagliato, nella storia sbagliata.
Chissà se è davvero così. Chissà se davvero non c’è posto per tutti – per chi lo voglia davvero –, e spazio, e lavoro, e istruzione e cure, e terre da seminare e arare, e servono sarti e calzolai, carpentieri e spazzini, ingegneri, autisti, dottori, infermieri, cantanti e musicisti.
Tocca a noi. Inventare. Fare. Chissà se l’Europa non potrebbe essere un posto migliore.

Nicotera, 31 agosto 2015

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