Ho agitato anch’io il libretto rosso di Mao. Anzi, poco tempo fa, rimettendo in ordine un vecchio baule, l’ho ritrovato, la copertina dal colore un po’ sbiadito e le pagine ingiallite ma ancora integro. D’altronde, ero in buona compagnia. Nel 1967, a Parigi il libretto di Mao fu un best seller dei primi quattro mesi dell’anno, vendendo centocinquantamila copie. È lo stesso anno de La Chinoise di Godard – le barricate del Maggio sono ancora da venire –, il film in cui un gruppetto di giovani rivoluzionari si interroga sulla violenza politica e una di loro finisce con l’uccidere un ambasciatore sovietico. La canzoncina, il tema musicale del film – si intitolava Mao Mao –, diceva: «L’impérialisme dicte partout sa loi / la révolution n’est pas un dîner / la bombe A est un tigre en papier / les masses sont les véritables héros. / C’est le petit livre rouge / qui fait que tout enfin bouge». L’imperialismo detta legge ovunque / la rivoluzione non è un pranzo di gala / la bomba A è una tigre di carta / le masse sono i veri eroi / È il libretto rosso / a far sì che tutto si muova. Erano frasi tirate pari pari via dal libretto rosso e raccordate da qualche nota musicale. Una cosa un po’ irriverente e un po’ ideologica. D’altronde, les maoistes in Francia furono una cosa importante, molto intelló – c’erano intorno Sartre, Foucault, Althusser, e ne vennero fuori personaggi come Serge July, tra i fondatori del quotidiano Libération, e André Glucksmann.
Anche in Italia, la Cina di Mao aveva i suoi seguaci. Lo stesso anno di Godard, Bellocchio – dopo il successo de I pugni in tasca – filma La Cina è vicina. In realtà, nel film la Cina è molto lontana e è solo evocata nei verbosi estremismi di un personaggio secondario che riempie di slogan le facciate dei muri di una cittadina della provincia italiana, dentro la quale si sviluppa l’intreccio piccolo-borghese della storia. Però, maoisti fiorivano e si moltiplicavano dappertutto, con i fazzoletti rossi al collo, inquadrati sotto enormi striscioni e issanti cartelli con le foto dei “grandi padri” – viva Marx / viva Lenin / viva Mao Tze Tung –, dalle grandi università ai centri operai alle campagne del Sud, ricollegandosi a filoni eretici del Partito comunista, che erano stati messi a tacere o in disparte e che dalla Rivoluzione delle Guardie rosse e dal “bombardamento sul quartier generale” che Mao aveva promosso trovavano nuova linfa, nella lotta al “revisionismo”. Non durarono molto. Ma erano parecchio coreografici – come ballerini dell’Opera di Pechino – e spaventarono un po’.
L’interpretazione europea, occidentale del maoismo è stata una cosa strana e complessa: da chi lo lesse e lo visse come una ventata di freschezza innovativa, di rottura con la burocratica e mortifera storia del “socialismo reale”, a chi ne ridusse l’espressione in rigide e sciocche regole di comportamento “puro” – una continua, intestina lotta al miglioramento di sé a scapito delle debolezze dei propri compagni. Poi arrivò Warhol.
Nel 1972 Andy Warhol prese la foto ufficiale del presidente Mao, appesa sulla grande porta della Piazza rossa, in ogni ufficio della Repubblica popolare cinese, o recata in corteo dai suoi sostenitori occidentali, e ne tirò una serie su tela utilizzando la tecnica serigrafica; quindi iniziò a intervenirvi con colori acrilici: violetto, azzurro, rosso, verde. Un portfolio di dieci serigrafie numerate e firmate. Mao, il Grande Timoniere, diventava un’icona pop, proprio come Marilyn o Elvis. Warhol anticipò Deng Xiaoping – il consumismo “consuma” tutto, dalla lattina di Campbell’s Soup ai fermenti rivoluzionari, non c’è altro mondo fuori d’esso. Deng Xiaoping – quello per cui non importava se i gatti fossero bianchi o neri purché acchiappassero i topi – fu l’uomo della “svolta” in Cina; lanciò ai cinesi il nuovo slogan: «Arricchitevi». E i cinesi si arricchirono.
Divennero la fabbrica del mondo, stupirono il mondo con la grandiosità delle loro opere – le più grandi centrali idroelettriche, il treno più veloce sulla terra, i ponti più lunghi, i grattacieli più alti, gli stadi più capaci –, accumularono enormi riserve in dollari, comprandosi il debito pubblico americano, conquistarono pezzo a pezzo parti d’Africa, divorando oggi tutto ciò che potevano divorare e seminando per divorare domani tutto ciò che potevano seminare. Poi, divennero anche la più formidabile macchina finanziaria della globalizzazione. Quei portentosi e spaventosi tassi di crescita con cui noi occidentali potevamo confrontarci solo scavando nei registri polverosi della Rivoluzione industriale prima o poi avrebbero rallentato. Quando sarebbe arrivato il poi, lo yuan avrebbe fatto la sua parte.
È esattamente quello che sta accadendo. La Cina svaluta progressivamente per non gettare nel panico le borse internazionali la sua moneta “lasciandola libera di fluttuare nel mercato”, per sostenere le sue esportazioni, ovvero la sua economia. Dopo avere arricchito, come diceva il “piccolo padre” Deng Xiaoping, milioni di piccoli investitori cinesi, che hanno triplicato o decuplicato i loro risparmi in pochi anni, adesso il Partito, il governo, il regime chiedono indietro un po’ di quella ricchezza – in qualche mese c’è chi ha visto decurtato della metà il proprio “tesoro” – per far “fronte comune”. Lo spirito nazionale, e basti pensare a tutta la produzione cinematografica degli ultimi anni che ha conquistato e appassionato il mondo, è una chiave di lettura delle cose. È, anzitutto, un’operazione di pulizia interna. La Cina stava diventando troppo “finanziaria” perdendo il contatto con l’economia reale. Aumento dei salari, miglioramento delle condizioni lavorative, opposizioni nelle campagne, hanno allentato la morsa produttiva: il controllo del regime sulla società si intensifica, ma il suo effetto collaterale è la paralisi. Oppure, per aggirare la paralisi, la corruzione diffusa, la corruzione come “sistema” – e qualche eco di processi giudiziari importanti è arrivata sino a noi. Ci sono altri paesi dove si produce a minor prezzo e è là che va spostandosi la fabbrica del mondo, anzi, le fabbriche del mondo. Di nuovo, una fabbrica diffusa, e non più concentrata tutta in un solo posto. Proprio come accadde da noi negli anni Settanta: il capitalismo, che sia bianco o nero poco importa, fa sempre le stesse cose. Si satura, riparte.
In Cina, è rimasto il “gioco finanziario”, i grandi investimenti pubblici, e gli oggetti di lusso, le grandi vetrine, il più alto acquisto di Ferrari o di altri simboli dell’ostentazione della ricchezza. È questo pezzo di economia finanziaria che sta andando nel panico, quello che in qualunque borsa del mondo fa il bello e il cattivo tempo. Quello sul cui impero “il sole non tramonta mai”. La Cina, ormai senza più maoistes, fa di nuovo paura alla borghesia.
E pensare che si sono scomodati fior di intellettuali per spiegarci che solo il “sistema cinese” – capitalismo a manetta e governo politico autoritario – poteva essere la risposta alla crisi, politica e economica delle nostre democrazie.
La bolla finanziaria cinese è proprio una tigre di carta.
Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung.
Nicotera, 26 agosto 2015