«Ho conosciuto Donald Trump a Roma, circa una dozzina d’anni fa, a cena. Solo che si chiamava Silvio Berlusconi». È così che inizia il commento di Frank Bruni, sul «New York Times» del 18 luglio, dopo la “discesa in campo” di Donald Trump alle primarie repubblicane per il candidato presidente. Dopo aver paragonato le loro carriere, e la reciproca intuizione del ruolo determinante delle televisioni, i loro patrimoni, le loro gaffe, le loro idiosincrasie, il loro narcisismo, l’identica ossessione per la capigliatura, il loro eccesso ormonale, il loro ego – And the vanity. Oh, the vanity. Berlusconi gli disse che i giornali lo dipingevano come un nano, ma lui era più alto di Aznar, al tempo primo ministro in Spagna, e di Putin e di Sarkozy, però tutti questi erano “normali” per i giornalisti –, Bruni conia il termine Trumpusconi. «Trump is Berlusconi in waiting, with less cosmetic surgery. Berlusconi is Trump in senescence, with even higher alimony payments». Trump è un Berlusconi pronto all’uso, con qualche intervento di chirurgia estetica in meno. Berlusconi è un Trump in declino, con qualche assegno alimentare alla moglie più alto.
It’s a comedy. It’s a tragedy. It’s even a porn flick — or close to one. È una commedia, è una tragedia. È pure un filmetto porno – o qualcosa che ci somiglia parecchio. Trumpusconi è un studio accurato sui pericoli e le insidie di testosterone fuori controllo e di una turgida avidità. È un commentario sulla ricchezza nel mondo occidentale: con quale foga certi sbruffoni la perseguono, e quanto il resto di noi è pronto a perdonare a coloro che la raggiungono, e come in definitiva noi associamo soldi e talento.
Donald Trump è sceso in campo. Finora lo conoscevamo per la sua ricchezza immobiliare – la rivista «Forbes» lo colloca solo al 314mo posto tra i più ricchi del mondo con un patrimonio di 2,9 miliardi di dollari, ma lui puntigliosamente ripete di averne 9, di miliardi di dollari –, per le numerose mogli, per l’eccesso di stravaganza nello stile di vita, per aver condotto con successo un programma televisivo, The Apprentice, che in Italia si provò a ripetere con Flavio Briatore ma fu una mezza ciofeca.
Ora, invece, ne ha per tutti: messicani, donne, gay, neri; battutacce, volgarità, e le ripete “con candore”, perché lui non ama il politicamente corretto e solo gli ipocriti lo fanno, cioè con furbizia si presenta come l’uomo schietto che non te le manda a dire. Ce ne ha da dire tante al presidente Obama, di cui continua a mettere in discussione persino la cittadinanza americana, e anche all’ex candidato repubblicano, una icona, il veterano del Vietnam McCain: «Lui per me non è un eroe. Lui si è fatto catturare. Eroi sono quelli che non si sono fatti catturare». All’ultimo scontro televisivo tra i sei candidati repubblicani più in pole position ha sbaragliato tutti, Jeb Bush, Rand Paul e via via gli altri, che provano a mantenere un profilo più moderato. La pancia dell’America più destrorsa e razzista è scesa sul ring – tra i tanti trascorsi di Trump c’è pure una sfida a wrestling per interposta persona con un altro milionario – e ha il suo campione. È chiaro che lo scontro, per ora, è tutto interno al Partito repubblicano. I democratici hanno un candidato unico, rappresentante di lusso della Clinton’s Dynasty, Hillary.
Tutti i sondaggi, in un ipotetico scontro fra dinastie – i Clinton da una parte e i Bush dall’altra – danno per vincente Jeb Bush. La Clinton è immensamente più preparata e ha dato prova di sé – del suo sangue freddo, della sua determinazione, del suo attaccamento al potere e al ruolo – in numerosi modi e in diverse occasioni e tempi. Ma è altrettanto indigesta. Magari sarà solo sfiga, quella sua aria saccente, il fato che so, ma sembra un po’ come Annette Bening, magnifica attrice dieci volte candidata all’Oscar che non è mai riuscita a prendere una statuetta, fosse pure per un ruolo non protagonista. La Clinton sembra una che non troverà mai una giuria disposta a darle un Oscar.
La verità è che il miglior candidato democratico è Barack Obama. La verità è che il secondo mandato di Obama passerà alla storia per tutto quello che sta facendo in termini di diritti, di libertà, di conquiste salariali. La verità è che Obama non può ripresentarsi per quella maledetta legge che fecero nel 1951 dopo i tre mandati e un inizio di quarto di Franklin Delano Roosevelt, FDR, approvando il 22° Emendamento della Costituzione per cui non ci si può presentare più di due volte. Se quattro anni sono pochi – si saranno detti gli americani, per giudicare e permettere a un presidente di “fare” – dodici comunque son troppi, tornasse pure George Washington in persona a dire che ha cambiato opinione.
La rissa è tutta fra repubblicani. C’è chi comincia a porre domande sul senso delle primarie e dei caucus, dove – vedete, non è un problema solo europeo – chi strilla più forte, chi fa più il populista ha buone probabilità di vincere. Chissà come abbiamo fatto noi italiani, a farci convincere che dovevamo fare le primarie come gli americani. Sono i luoghi dei “militanti”, ma per vincere bisogna poi convincere chi militante non è. A McCain, troppo perbene, troppo moderato, a un certo punto affiancarono come candidata-vice quello strambo personaggio del governatore dell’Alaska, Sarah Palin, spinta dai militanti del Tea Party, col suo fucile in spalla e i trofei delle teste d’alce. Fu un disastro.
Donald Trump sembra però voler andare fino in fondo. Se non vincerà le primarie, se non prenderà “da dentro” il partito, si presenterà comunque. I soldi li ha. I soldi li può trovare – la destra reazionaria ha grandi finanziatori.
La storia recente – anche Theodore Roosevelt si candidò una volta con un suo partito – dei candidati indipendenti è tutta un busillis. Ci provò Ross Perot, imprenditore texano, la prima volta nel 1992, contro Bill Clinton e Bush senior. Molti sostennero che fu il successo inaspettato di Perot in diversi Stati – benché non conquistò neppure un grande elettore, raccolse il 19 percento dei consensi elettorali – a provocare la sconfitta di Bush. E poi ci provò Ralph Nader, ambientalista, radicale, dalla parte dei consumatori, nel 2000, quando imperversò lo scontro tra Al Gore e George W. Bush. In Florida, Bush batté Gore per soli 537 voti. Nader ne ottenne 97.421, e si portò dietro l’accusa di avere costretto tutti a otto anni di W.
Se è vero che gli indipendenti finiscono con il sottrarre voti al candidato più popolare, la Clinton allora ha una possibilità di farcela. La sua possibilità si chiama Trumpusconi.
Nicotera, 7 agosto 2015