A Rimini c’è un questore. Si chiama Maurizio Improta e è napoletano, laureato a Roma, lunga carriera qui e là in Italia, fino all’approdo a Rimini. Sposato, con due figli, il dottor Improta è l’uomo che ha firmato il decreto di chiusura “temporanea” per quattro mesi della discoteca Cocoricò di Riccione, dopo la morte del giovane Lamberto Lucaccioni di sedici anni. È una notizia sorprendente, il fatto che a Rimini ci sia un questore. Perché uno si poteva chiedere dove mai fosse un questore quando il 20 dicembre 2004 un diciannovenne marchigiano morì per abuso di metanfetamine, quando nell’agosto 2012 un ventenne fu ricoverato e si salvò per miracolo, quando lo stesso mese una coppia, lei di 20 lui 29 anni, finì in coma per una pasticca di Mdma, quando il 20 luglio 2013 una ragazza entrò già in stato comatoso nel locale, quando nel dicembre 2013 un ventunenne di Ancona fu ricoverato per droga e alcol, quando il 2 gennaio 2014 un napoletano di 32 anni fu trovato morto in hotel e le indagini appurarono che fu ucciso da droga e alcol, e che la sera prima era stato al Cocoricò.
Scrive, il questore di Rimini, che il giovane Lucaccioni acquistò l’ecstasy «per consumarla in uno spazio emotivo ben definito perché il Cocoricò rappresentava il luogo perfetto dove assumerla. L’ha assunta per predisporsi psicofisicamente a trascorrere in maniera per lui appropriata l’agognata serata». Nella questurina prosa, traspare una certa pietas per il povero ragazzo, e come potrebbe essere altrimenti, per un padre di figli. Traspare pure il fatto che le due cose – l’acquisto dell’ecstasy e l’esistenza del Cocoricò – non siano proprio direttamente collegate. Non è l’esistenza del Cocoricò che ha provocato direttamente la morte di Lucaccioni – come potrebbe mai dire una cosa di queste, un uomo che conosce la legge come il dottor Improta. E allora, perché chiuderlo?
Il “pusher” di Lamberto Lucaccioni si chiama Tommaso Calderini e ha diciannove anni. Tommaso è dello stesso posto di Lamberto, Città di Castello. Si conoscevano, come fai a non conoscerti a Città di Castello? Lamberto frequentava casa Calderini, con il figlio più piccolo alle elementari andavano insieme. Dal più grande, invece, ha comprato le pasticche. Verso le due di notte, gliene ne ha chiesto ancora. Tommaso gliel’ha ceduta. «Non è mai stato difficile trovare pasticche al Cocoricò», ha raccontato agli inquirenti. Tommaso è uno che a scuola va forte, qualcuno dice sia il primo della classe. Nella vita non vuole fare il pusher di mestiere. «Sono stato cinque volte al Cocoricò e per cinque volte ho acquistato droga», ha detto. Il fatto è che lui da circa un anno si cala le pasticche – almeno, così ha raccontato. Per rimediarle, le cede anche. Compra e vende, gli rimangono attaccate le sue, per il consumo suo, a gratis. Il suo avvocato ha spiegato: «Il ragazzo ha preso la stessa sostanza proveniente dalla stessa partita che hanno preso Lamberto e suoi due amici». Chissà quanti fanno come lui. È così che si allarga il giro.
Il ministro Alfano gongola. Tolleranza zero, dice. Chiuderemo tutti i locali che non rispettano le regole, dice. Quali regole? I locali devono pagare le licenze, devono chiedere permessi, hanno misure di decibel, volumi e spazi da rispettare, le maniglione anticendio, i materiali ignifughi, sono sottoposti a controlli sanitari, fiscali, dell’ispettorato del lavoro. Queste sono le regole. Non è che ci sono regole per spacciare pasticche. Non è che sotto l’insegna dei locali, c’è scritto “Qui si spaccia”.
Ci fossero, le regole per le droghe. Magari si salverebbero tante vite. Di chi li assume e di chi le spaccia.
Ora, certo a pensar male a volte uno azzecca, e è pure possibile che dietro i locali più famosi si organizzino malavite per lo spaccio di droga. Accade ormai in qualunque raduno occasionale di giovani, accade davanti e dentro le scuole, perché non potrebbe succedere anche dove il “cammino dello sballo” porta ormai ragazzi a valanghe?
Ma che facciamo, chiudiamo gli stadi perché è ormai risaputo che gruppi organizzati di ultras alimentano la loro forza e la coesione degli adepti, e la guerra contro altre bande, utilizzando lo spaccio di roba?
La “morale pubblica” non serve a nulla. Serve, come ormai le notizie ci hanno abituato a sapere, al fatto che a esempio dietro le associazioni antimafia a volte si celano brutti ceffi che profittano. È necessaria, piuttosto di proclami, una seria attività investigativa, la conoscenza del territorio, la comprensione di fenomeni sociali dentro i quali si annidano comportamenti criminali. Il crimine specula sui desideri delle persone – vale per la prostituzione, vale per il gioco d’azzardo, vale per le droghe.
Sono 244 i parlamentari che hanno firmato la proposta di legge per la legalizzazione della cannabis: 204 deputati e 40 senatori. Il punto della trasversale iniziativa parlamentare, ha detto il senatore Benedetto Della Vedova, è che il problema «non è più dichiararsi favorevoli o contrari alla legalizzazione, ma regolare un mercato che è già libero».
Qui non si tratta di essere tolleranti o meno, di essere garantisti o meno, di essere fricchettoni o bacchettoni. Qui si tratta di efficacia. In nessuna parte del mondo, dove sono state applicate con rigore – anche quello estremo, in Iran ti impiccano se assumi o spacci droghe – le regole della “tolleranza zero” hanno prodotto qualcosa di duraturo. Spese folli, investimenti deliranti, campagne promozionali, accordi internazionali, con risultato zero carbonella. Per chi ne ha fatto una ragione di carriera, si è trattato solo di una moderata applicazione: ci vuole ancora più rigore, ancora meno tolleranza. Per tutti gli altri, si fa strada l’idea che forse non è questo il metodo per combattere le mafie.
E per salvare tanti giovani.
Nicotera, 4 agosto 2015