Il rusticano mulinar di lame in terra di Sicilia.

rosario crocetta«Buttana», l’uno. «Buttana, sarà lei», l’altro. Vedremo come finirà tra i due gentiluomini, il giornalista Pietrangelo Buttafuoco che ha raccontato come aneddoto ricorrente tra i colleghi l’episodio in cui Antonio Presti, artista e stretto sodale di Rosario Crocetta appena eletto governatore della Sicilia, richiamava alla finestra il suo amico trionfatore, svegliandolo dai molli e orientali riposi e appellandolo da meretrice, perché si desse alla stampa, e lo stesso Presti che non solo nega ogni circostanza di luogo e di tempo e di verbo ma lo accusa di sfruttare il momento per vendere un suo libricino. L’ordalia del giudizio non sarà un rusticano mulinar di lame ma verrà più signorilmente affidato a un tribunale. Nelle more, corre rilevare come nella maschiosissima Sicilia l’appellativo ricorrente contro l’occasionale nemico non sia più il classico “cornuto” ma un più obliquo “buttana”. D’altronde se in Italia un regime è caduto per esser stato guidato da un “puttaniere”, sarà ben d’uopo che in Sicilia, terra a sé e colonia, un regime minore non possa che cadere perché buttana. Buttafuoco ne ha ricavato un degrado dei tempi, e indicherebbe come tutto qui il lascito ai posteri del passaggio politico di Crocetta; Presti, forse, direbbe che è sempre stato così – anche ai tempi di Patti e di Brancati e, si parva licet, di Lando Buzzanca. E sempre sarà. La Sicilia è immutabile, diceva il filosofo Sgalambro. La Sicilia è irredimibile, diceva Leonardo Sciascia. Buttana era e buttana resta.
Le 120 giornate di Sodoma, ovvero il governatorato di Crocetta – che così sembrerebbe potersi raccontare seguendo Buttafuoco – è ormai agli sgoccioli. Forse. L’ultima mossa del governatore è stato appellarsi allo spirito indipendente dei deputati dell’assemblea regionale siciliana. Non siano gli stranieri, gli invasori, i “romani”, a dettare i tempi – ha detto. Siate voi. E il “forse” allora diventa d’obbligo.
Scrive Alfio Caruso, narratore di cose storiche e siciliane, nel suo Quando la Sicilia fece guerra all’Italia, raccontando quello che accadde nell’isola tra la caduta del fascismo, l’arrivo degli Alleati, la nascita del Movimento indipendentista, la guerriglia di Salvatore Giuliano e l’avvento della Prima repubblica – tra la strage di Portella della Ginestra e l’ammazzamento a tradimento di Giuliano e poi di Pisciotta in carcere: «Il Partito unico siciliano. Lo compongono i cento cognomi e i cinquanta nomi che in difesa della propria convenienza hanno da sempre tradito e calpestato le giuste aspettative dei corregionali. Nell’isola dove i viceré contano più dei re il Pus da mille anni annulla qualsiasi differenza ideologica. Dall’estrema Destra all’estrema Sinistra mette insieme e amalgama politici all’apparenza inappuntabili, imprenditori arricchitisi con le concessioni statali e regionali, giudici e magistrati addobbati da sacerdoti del Diritto, eleganti amministratori delegati di banche malmesse: da centocinquant’anni per il proprio tornaconto sono disponibili a baciare tutti i culi nordisti in circolazione». I culi, in questa storia, tornano sempre.
Come si potrebbe dire meglio? Il Pus stava dalla parte di Crocetta? Il Pus sta facendo fuori Crocetta? Eppure, nella terra simbolica del berlusconismo, dove il berlusconismo si fece carne e sangue – quella del 61 a 0, quella di Dell’Utri e Micciché, della Prestigiacomo e Alfano, di La Loggia e Schifani – lo smottamento c’era già stato, con la vittoria di Raffaele Lombardo. Il Pus si era ritrovato. Poi, nuove faide. Partitini, correnti, derive. E l’arrivo di un outsider. Uno eletto dal tredici per cento dei cittadini – c’è chi ha fatto i conti, alte furono le astensioni, alto il frazionamento dei voti. Crocetta riuscì persino a intercettare all’inizio la benevolenza dei grillini, non proprio un appoggio ma un’occasione per vedere l’effetto che fa. Fu lui stesso a suggerire a Bersani – ancora impantanato nell’impasse del dopo-voto che più complicato non poteva essere – di seguire il suo «metodo». A lui era riuscito. A Bersani non andò così.
Il Pus scelse Crocetta come unico rimedio plausibile per fermare la catastrofe incombente dei grillini? Il Pus ha deciso di scaricarlo perché sa già come quadrare il cerchio? Le cose non sono così semplici: tutti i sondaggi danno come possibile un trionfo dei grillini, si votasse, metti, tra un mese. È lo stesso impasse che attanaglia rispetto lo scioglimento del comune di Roma, per dire. È lo stesso impasse che non ci fa votare ormai da anni.
Eppure, in questa storia qualcosa non torna. Scoppia all’improvviso lo scandalo di una intercettazione pubblicata dal settimanale «l’Espresso», in cui il medico di Crocetta, Tutino, parlando al telefono con il governatore dice della Borsellino, assessore alla Sanità che andrebbe fatta fuori «come il padre». Tutino ce l’ha a morte con la Borsellino, perché si interessa troppo dei suoi affari, e cerca di mettergli i bastoni tra le ruote, cerca di raddrizzare le cose. L’Italia tutta, quella del Pui, Partito unico italiano, si indigna. Crocetta non avrebbe profferito verbo, ma come si fa a stare in silenzio quando qualcuno ti dice una enormità del genere? La Borsellino si dimette, Crocetta si nasconde. Quando rimette la testa fuori, è già accaduto che il procuratore capo di Palermo ha detto che agli atti – l’indagine riguarda proprio il medico Tutino – non risulta questa intercettazione. Anche i carabinieri dicono che loro non ne sanno nulla. E il procuratore di Caltanissetta, che ha per le mani un altro filone delle indagine, dice che pure a lui non risulta nulla. A questo punto tutti si aspettano che il settimanale tiri fuori l’intercettazione. L’intercettazione, però, non c’è, anche se «l’Espresso» conferma. Diciamo meglio, specifica. L’intercettazione in realtà è stata ascoltata, per le grazie di un investigatore. E è stata “tradotta”, perché era in dialetto. E sono stati presi degli appunti. Ora, chi ha una qualche dimestichezza con le trascrizioni delle intercettazioni sa che sono numerose le incomprensibilità, i rumori, le sovrapposizioni di voci, le pause, le sospensioni, le parole senza capo né coda, le locuzioni e le espressioni dialettali, le forzature interpretative. Quelle che escono “pulite” sui giornali, è perché sono state “ripulite”.
La risposta, insomma, sembra debole. Che succede a questo punto? Che il Pui invece di indignarsi per le modalità dell’accusa contro Crocetta – tanto più disgustose e orribili per via delle cose che sarebbero state dette – dice che va bene, forse l’intercettazione non è proprio sicura, però il quadro complessivo è inquietante lo stesso. Che è come quello che succede nei film americani quando prendono un cattivo e lo accusano di qualcosa che non ha commesso ma tanto non importa perché qualcosa di brutto l’ha sicuramente fatto. E una mano lava l’altra.
Il Pus è così, una mano lava l’altra.
La guerra per bande nel Pd di Renzi sta producendo questi effetti qua. L’anomalia siciliana – Crocetta fu proprio miracolato dai veti incrociati dentro il Pd, fino a conseguirne tutti i vantaggi – va ricondotta all’ordine. A qualunque costo.
E invece la questione è una e una sola. O l’intercettazione c’è – “l’inquietante contesto” non conta niente adesso –, e quelle frasi sono state pronunciate e c’è quel terribile silenzio di Crocetta, oppure no. Nel primo caso, Crocetta deve andarsene e basta; non perché abbia proiettato le sue mollezze da puppo sul governo dell’isola; non perché abbia cambiato trentasette assessori durante il suo mandato. Solo perché è inammissibile che qualcuno ti parli in quel modo, anche se è lontano anni luce da te un’espressione simile. Nell’altro caso, Crocetta fa bene a prendere tempo e a uscire con dignità da questa storia. Il suo governo non finirà nei libri di storia – come pure qualcuno ha sperato – e porta la colpa di avere sprecato un’occasione politica straordinaria.

Nicotera, 24 luglio 2015

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