Alle 10 e 02 del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia esplode una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti durante una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. Muoiono otto persone, si contano un centinaio di feriti.
Dopo quarantun anni e dodici processi, l’altrieri sono stati condannati all’ergastolo per la strage Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Maggi, medico, ha oggi ottantun anni, è malato. Manlio Milani, presidente dell’Associazione delle vittime di Brescia, che quel giorno perse la moglie, ha già detto che a lui non interessa che Maggi vada in galera, che anzi, viste le sue condizioni di salute, si batterà per evitarlo. A lui interessava la verità storica e una sentenza che la acclarasse. Maggi, all’epoca dei fatti, era, insieme a Franco Freda, che fu in più processi accusato della strage di piazza Fontana, senza condanna, il responsabile veneto di Ordine nuovo, un movimento politico di estrema destra, sciolto poi dal ministro degli Interni, Paolo Emilio Taviani, e ricostituito come Ordine nero. Maggi era già stato assolto in appello dalla strage di piazza della Loggia – come gli altri imputati: l’ex ordinovista Delfo Zorzi, il generale dei carabinieri Francesco Delfino, nei giorni dell’eccidio comandante del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, Pino Rauti, che sarebbe dovuta essere la “testa politica”, e proprio Maurizio Tramonte –, ma nel nuovo processo, chiesto dalla Cassazione per non aver bene valutato una serie di prove, e in particolare le dichiarazioni del pentito Carlo Digilio, è stato invece ritenuto responsabile come organizzatore dell’attentato. L’altro imputato condannato, Maurizio Tramonte, era un militante del Movimento sociale, poi espulso, e partecipava alle riunioni di Ordine nuovo, in particolare era presente a un incontro in cui si decise “un grosso attentato”; Tramonte era anche un informatore del Sid, il servizio segreto, nome in codice “fonte Tritone”. Passava regolarmente informazioni – si contarono venticinque “informative” – sul gruppo veneto di Ordine nuovo al suo “contatto”, e quindi scrisse anche dell’incontro a Abano Terme e del “grosso attentato”. Nessuno fece nulla. Nessuno fece nulla anche dopo. E, benché si sapesse che c’era una fonte informativa dei servizi, per anni non era noto il suo nome.
Fu il giudice Salvini, che da gip indagò sull’eversione nera in Lombardia, a “scoprire” quel nome, per caso. Un bel giorno del 1992, Guido Salvini era andato in trasferta da Milano a Padova, agli uffici del Sismi, il servizio segreto militare: «Eravamo andati per l’incartamento di Gianni Casalini». Casalini era un altro ordinovista e informatore del Sid con il nome di copertura «Turco», coinvolto nella inchiesta per le bombe alla banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano. «Ci furono consegnati questi enormi faldoni senza alcun problema, nel 1992 ormai non c’era più interesse a nascondere. Fui io a trovare in fondo al fascicolo il foglietto che rivelava il nome della fonte “Tritone”, Maurizio Tramonte». Nell’istruttoria, nel corso di molti interrogatoti, Tramonte confessò. Per Salvini, quella prima confessione era «veritiera, e tanto più credibile in quanto non si trattava di accuse a altri ma a se stesso». Poi, in aula Tramonte ritrattò e si chiuse nel silenzio. Però alla confessione «c’era riscontro» e la principale conferma alle parole del neofascista informatore del Sid, era venuta «dal maresciallo del Sid Fulvio Felli, che riceveva le informative e che ha confermato tutto».
Tutto questo finora non era bastato.
– 2 giugno 1979: I giudici della Corte d’assise di Brescia condannano all’ergastolo Ermanno Buzzi (che poi verrà ucciso nel supercarcere di Novara da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli, due “pezzi grossi” dell’eversione nera), e a dieci anni Angelino Papa, esponenti dell’estrema destra cittadina.
– 2 marzo 1982: I giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia assolvono tutti gli imputati, Papa compreso, e nelle motivazioni definiscono Buzzi “un cadavere da assolvere”.
– 30 novembre 1984: La Cassazione annulla la sentenza di appello e dispone un nuovo processo per Nando Ferrari, Angelino e Raffaele Papa e Marco De Amici. Durante quello stesso anno, Michele Besson e il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi avviano una seconda inchiesta sulla base delle rivelazioni di alcuni pentiti. Tra gli imputati il neofascista Cesare Ferri, accusato anche dalla testimonianza di un prete, il fotomodello Alessandro Stepanoff e il suo amico Sergio Latini che gli aveva fornito un alibi.
– 20 aprile 1985: La Corte d’assise d’appello di Venezia, davanti alla quale viene celebrato il nuovo processo di secondo grado, assolve tutti gli imputati del primo processo bresciano.
– 23 maggio 1987: I giudici di Brescia assolvono per insufficienza di prove Ferri, Latini e Stepanoff. I primi due sono assolti anche dall’accusa dell’omicidio di Buzzi che, secondo i pentiti, avrebbero fatto uccidere perché non parlasse.
– 25 settembre 1987: La Cassazione conferma la sentenza di assoluzione dei giudici della Corte d’appello di Venezia. Cala il sipario sulla prima inchiesta sulla strage.
– 10 marzo 1989: La Corte d’assise d’appello di Brescia assolve, stavolta con formula piena, Ferri, Stepanoff e Latini.
– 13 novembre 1989: La Cassazione sancisce in via definitiva le assoluzioni di Ferri, Stepanoff e Latini.
– 23 maggio 1993: Il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi, accogliendo la richiesta del pm, proscioglie “per non aver commesso il fatto” gli ultimi imputati dell’inchiesta bis. A ottobre di quell’anno prende il via la terza inchiesta.
– 16 novembre 2010: I giudici della Corte d’assise di Brescia assolvono tutti i cinque imputati (Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti) con una formula dubitativa.
– 14 aprile 2012: la Corte d’assise d’appello conferma l’assoluzione di tutti gli imputati.
– 21 febbraio 2014: la Cassazione dice ‘no’ alle assoluzioni di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, imputati nel processo per la strage di piazza della Loggia, disponendo per i due imputati un nuovo processo d’appello.
– 26 maggio 2015: inizia il processo d’appello bis, in cui sono imputati Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte.
La sentenza di ieri l’altro – ci sarà anche un passaggio in Cassazione – condanna un organizzatore e un informatore, uno che partecipava alle riunioni. Non abbiamo in realtà la più pallida idea di come siano andate le cose nei fatti – che tipo di esplosivo, dove era stato reperito, che tipo di innesco, che tipo di contenitore per il trasporto, come e quando era stata messa lì la bomba, chi la mise e perché. Un’autopompa lavò tutta la piazza prima che una qualunque perizia potesse essere fatta. Perché proprio Brescia? E perché proprio i veneti – di Freda e Ventura furono acclarate le responsabilità per piazza Fontana, ma in uno degli innumerevoli processi erano stati considerati non colpevoli e quindi non più giudicabili – furono i bombaroli?
Ha detto Manlio Milani che la sentenza consente di riconsiderare gli anni dal ’69 al ’74. Il 1969 è l’anno della bomba di piazza Fontana, il ’74 è l’anno di quella di piazza della Loggia. Però, le bombe continuarono. Provo a ricordarle tutte: 12 dicembre 1969, piazza Fontana; 22 luglio 1970, treno a Gioia Tauro; 31 maggio 1972, Peteano; 17 maggio 1973, Questura di Milano; 28 maggio 1974, piazza della Loggia, Brescia; 4 agosto 1974, treno Italicus, San Benedetto Val di Sambro; 2 agosto 1980, stazione di Bologna. Stragi punteggiate da attentati, da assassini, da altre stragi.
In Italia, si può dividere la storia contemporanea, quella dopo il fascismo, seguendo la curva delle stragi: prima a morire erano contadini e operai, le stragi le compivano i soldati e i carabinieri – e i mafiosi, come a Portella della Ginestra – per fermare il movimento operaio; poi ci sono le stragi “nere”, a volte, come a Gioia Tauro forse con la collusione della mafia; poi ci sono le stragi della mafia. Ci sono pure le stragi “rosse”, certo – quelle nell’immediatezza della caduta del fascismo e quelle degli anni di piombo; ma le bombe contro cittadini inermi, le bombe indiscriminate nella piazza, non furono mai rosse. Le bombe per creare terrore e paura, le bombe per invocare ordine e militari, quelle, le piazzavano i neri. Questa era la strategia della tensione. Una strategia internazionale, guidata dagli americani – è ormai acclarato attraverso documenti finalmente desecretati – che usava mafiosi, neri, qualsiasi opportunità. La mafia c’è sempre, pure lo Stato c’è sempre. L’eversione nera era zeppa di infiltrati, di informatori.
Avere condannato Tramonte per la strage di Brescia del 1974 significa considerare che ci sia stata una “qualche” responsabilità di apparati statali. E benché questa sia non solo una “verità storica” ma anche una “verità giudiziaria” descritta in numerose sentenze, non c’è mai stata una condanna specifica.
Il tempo non lenisce le ferite. Uno degli avvocati di parte civile al processo ebbe un genitore ferito nella strage di Brescia. La memoria delle stragi ha senso ormai solo per i familiari delle vittime, almeno per quelli che ancora vivono – in quarant’anni ce ne sono stati di morti – e quelli della prima generazione successiva. Le condanne – quando arrivano – placano solo alcune anime. Il tempo non aiuta a capire: tutti i sondaggi fatti tra i ragazzi delle scuole restituiscono un quadro sconfortante, c’è chi non ne sa nulla, c’è chi attribuisce agli uni le stragi degli altri, in una nebulosa confusa. Certo, dev’essere difficile capire che qualcuno per oltre un decennio abbia pensato di mettere bombe in una piazza, di commettere stragi per “strategia politica”.
Forse questa inconsapevolezza è segno anche di un rifiuto, viscerale, antropologico prima ancora che “storico”. Se è così, ben venga.
Che le stragi che punteggiarono e arrossarono di sangue l’Italia restino pagine di storia.
Nicotera, 23 luglio 2015