Today is a new chapter to work towards growth & development of our dear #Iran; a day for our youth to dream again for a brighter future. Oggi si apre un nuovo capitolo per lavorare per la crescita e lo sviluppo del nostro caro Iran; un giorno per la nostra gioventù per sognare di nuovo un futuro più brillante. Con questo tweet Il presidente iraniano Hassan Rohani ha annunciato l’accordo sul nucleare con i P5-Plus, cioè i cinque paesi che siedono come membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite – Stati uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia – e il Plus, la Germania. E questa non è solo una buona notizia, è una buona novella. Lo scenario del Medio oriente – martoriato, dilaniato, su cui incombe l’ombra lunga del Gran Califfo dell’Orrore e dello Stato islamico – può cambiare
La seconda buona novella è che il presidente americano Obama in un’intervista al «New York Times» ha speso solo parole dolci per Putin. «I’ll be honest with you. I was not sure», ha detto Obama, devo essere sincero, non ne ero sicuro. Di mezzo c’era stata l’Ucraina, e tutte le diffidenze rispetto quella questione, ancora aperta. Invece, «senza la determinazione della Russia a restare dalla nostra parte e insistere per una buona trattativa, non ci sarebbe stato alcun accordo». Due settimane fa – ha rivelato Obama – il presidente americano e quello russo hanno parlato di Siria. Hanno parlato di Assad. È probabile che la Russia si sia resa conto che il controllo di Assad sul territorio sia ormai molto ma molto ridotto. È probabile che la Russia si sia resa conto che il rovesciamento del regime forse non è imminente ma è una minaccia ogni giorno più reale. «That offers us an opportunity to have a serious conversation», e questo ci offre l’opportunità di avere un serio scambio di vedute.
Il presidente iraniano Rohani si è preoccupato di mettere in guardia. «Nessuno può dire che l’Iran si è arreso». Parla alla sua opposizione, a quei pasdaran che ancora vedono l’America come il Grande Satana e considerano ogni trattativa come una sconfitta, come una resa, come la discesa verso l’inferno. Ognuno ha i suoi pasdaran – la Merkel, Tsipras, Obama – più o meno forti, più o meno capaci di rallentare o rovesciare decisioni politiche importanti. Rohani deve vedersela con un’opposizione ancora decisiva, in grado di controllare leve di potere e fette di opinione pubblica. Tante volte si è parlato di rinnovamento, di riformismo in riferimento alla situazione iraniana, tante volte i giovani iraniani sono scesi in piazza chiedendo cambiamenti. Tante volte hanno lasciato la loro vita, in quelle piazze. Chi non ricorda la rivoluzione verde del 2009 e la giovane Neda? Nethanyau ha usato parole durissime contro l’accordo, un errore «di proporzioni storiche».
«L’Iran non sarà più chiamato una minaccia mondiale», ha aggiunto Rohani. Si rompe l’isolamento dell’Iran. Di quello che a un certo punto della nostra storia fu il più potente e esteso impero mai visto. Andava dal Bosforo all’Indo, dalla Tracia fino all’Etiopia. I greci, lo vivevano come una minaccia. I greci, quello che allora era l’occidente, l’Europa. E ne avevano ragione. Due volte provarono a prendersela, la Grecia, con Dario e con Serse. Due volte furono fermati. L’immaginario europeo, la cultura europea è fatta anche di queste cose qua, gli spartani e le Termopili, la corsa fino a Atene per annunciare la vittoria a Maratona. È fatto contro la Persia, l’Iran.
Il 21 marzo del 1935, lo scià Reza Pahlavi chiese formalmente alla comunità internazionale di riferirsi al suo paese con il suo nome originario, Iran. Iran, paese degli ariani. Allora, la cosa non andò giù agli ayatollah, che si opposero, gli sembrava una cosa troppo moderna, un cambiamento troppo rapido. Pahlavi fu durissimo. Era un carattere che restò nella sua dinastia, che voleva modernizzare il paese, come stava facendo Ataturk in Turchia: il figlio, Mohammad Reza Pahlavi basava tutto il suo potere sul terrore della Savak, la polizia segreta. Ma nel 1959, lo scià Mohammad Reza Pahlavi annunciò che ci si poteva riferire al Paese indifferentemente con il nome originario di Iran o di Persia. Di tutte le sue “riforme”, questa è quella di cui è rimasta più memoria.
Lui era lo Shahanshah Eran, il re dei re d’Iran. Ma perché si capisse meglio, lo era pure ud Aneran, del non-Iran. Lei era la Shahbanou, l’Imperatrice. Che una volta fu Soraya – che sembrava la sorella di Ava Gardner con degli occhi incredibilmente belli – e dopo averla ripudiata, perché non gli dava figli, fu Farah Diba, la giovane studentessa che gli rapì il cuore. Ah, le paginate dei rotocalchi italiani sulle loro storie. Bruno Filippini cantava, mi pare a Sanremo: Non lo so che cos’è l’amor / ma se c’è assomiglia a te / ma se c’è deve avere i tuoi occhi belli. Soraya, la Shahbanou che voleva fare l’attrice. Soraya, la Shahbanou che si innamorò di un italiano. Soraya, la Shahbanou che era perennemente depressa. Farah Diba, la Shahbanou che lo fu per poco, perché l’ayatollah Khomeini gli rovesciò l’impero e li mandò in esilio – lui morì presto di cancro, lei restò sempre al suo fianco.
Avevamo amato anche noi la rivoluzione contro lo Shahanshah Eran, spietato contro l’opposizione, servo degli imperialismi del petrolio. Avevamo anche noi – mica solo i grandi intellettuali come Foucault – sperato che dopo le prigioni e le torture potesse rinascere un paese con un immenso carico di storia: il più antico documento che parli di diritti civili è proprio persiano; fu Ciro a promulgare il permesso ai cittadini dell’impero di praticare la loro religione liberamente. Costantino e il suo editto erano ancora lontani. E la questione del rapporto tra religione e diritti continua a attraversare il mondo.
Si rompe l’isolamento dell’Iran. Tra poco finiranno le sanzioni internazionali. Laurent Fabius, il ministro degli Esteri francese, ha già annunciato che vuole andare a Teheran. Il ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, parlando alla Camera dei Comuni, ha detto che spera si diano presto le condizioni per riaprire l’ambasciata a Teheran, che fu chiusa dopo l’assalto di una folla inferocita per le sanzioni. Era ancora viva la drammatica storia dell’ambasciata americana a Teheran, quando cinquantadue membri del personale diplomatico furono presi in ostaggio dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981, dopo che un gruppo di studenti aveva dato l’assalto. A Carter costò la presidenza, visto che non riusciva a sbloccare la situazione e la sua faccia triste sembrava portare sventura. Ci aveva provato per vie diplomatiche, ci aveva provato per vie militari, ma fu un disastro – gli elicotteri che dovevano atterrare e liberare gli ostaggi si scontarono e otto militari persero la vita. Si chiamava Eagle Claw, artiglio dell’aquila, quell’operazione, ma di aquila aveva ben poco. Anche Carter aveva i suoi pasdaran, nemici sempre all’erta per boicottarlo. I pasdaran contro Carter erano guidati da Ronald Reagan. Appena divenuto presidente, il primo gesto di Reagan fu di chiudere la trattativa con l’Iran e far liberare gli ostaggi.
Parlando con il «New York Times», Obama ha rispolverato Reagan. «You know, I have a lot of differences with Ronald Reagan, but I completely admire him» – si sa, ci sono un mondo di differenze tra me e Reagan, ma ho un gran rispetto per uno che si rende conto che è possibile fare un accordo con l’impero del male. E ha aggiunto di avere anche un grande rispetto verso Nixon. «I had a lot of disagreements with Richard Nixon, but he understood there was the prospect, the possibility, that China could take a different path», non c’è quasi nulla su cui potessi essere d’accordo con Nixon, però lui comprese che c’era una prospettiva, una possibilità che la Cina prendesse un’altra strada. Due icone della destra repubblicana – Nixon e Reagan – citati come grandi statisti dal più democratico dei presidenti americani.
Ognuno ha i suoi pasdaran da tenere a bada.
Nicotera, 15 luglio 2015