Yanis come il Che, Alexis come Fidel, la Grecia come Cuba?

yanis-alexis-ernesto-fidelChissà come si dice “la Poderosa” in greco. E chissà se quella Yamaha XJR 1300 che Yanis cavalca prima o poi si metterà sulle strade d’Europa per conoscere da vicino come stanno le cose nel vecchio continente, come la Norton 500 M18, la Poderosa, di Alberto Granado con cui Ernesto Guevara de la Serna si mise in viaggio sulle sconquassate strade dell’America latina. Da Cordoba, Argentina, arrivarono fino in Perù, sulle rive del Rio delle Amazzoni, che è come se dal Pireo si partisse per arrivare, che so, alle isole Lofoten, o a Capo Nord, che è Norvegia ma dovrebbe pure essere Europa, almeno stando alle carte. Ernesto, el Che, ci scrisse il suo Latinoamericana (Notas de viaje), che poi divennero I diari della motocicletta. Chissà come si scrive in greco I diari della motocicletta.
Lo so, lo so, queste cose non si dovrebbero fare. Ogni momento della storia è al posto suo, ogni icona della storia ha la sua nicchia. E mescolare le carte è un gioco blasfemo, che rischia sempre di fare torto a tutti. Però, a me Alexis e Yanis assieme ricordano tanto Fidel e Ernesto. Parlo di Cuba, certo, parlo della guerriglia sulla Sierra Maestra, parlo dell’entrata trionfale all’Avana e della fuga del dittatore Battista. Parlo di una cosa tanto lontana nel tempo, della sfida all’imperialismo, della rivoluzione dei poveri. Dico parole che non si pronunciano più – imperialismo, rivoluzione –, che nessuno capisce più. Come se parlassi greco, ecco.
Ve ne prego, per un attimo, lasciamo da parte quelle cose diaboliche dell’iva al 13 o al 19 percento, dello 0,2 di crescita attesa nel prossimo trimestre, del 2,8 percento nel rapporto tra deficit e pil. Cazzo, guardi la tivvù, ascolti la radio, leggi i giornali e da un mese sembrano tutti diventati ragionieri. Un’Europa di ragionieri. Abbiamo avuto – almeno noi in Italia, l’abbiamo avuta – l’Europa dei geometri, che ha devastato il nostro paesaggio. Ora abbiamo quella dei ragionieri che devasta la nostra società. Tutti lì a fare i conti della serva, se con Samaras e le sue “riforme” guidate dal Fondo monetario era cresciuta dell’1,8 per cento oppure dell’1,4 come dice l’Ocse. E se ne dibatte, oh, se se ne dibatte. Come cambiasse qualcosa. Come se l’Europa potesse restare appesa allo 0,4 di un debito che assomma a 320 miliardi, parliamo di 1 miliardo e mezzo di euro, parliamo di noccioline. Mentre un intero popolo – la Grecia, quella senza la quale staremmo ancora a chiederci se le ombre che vediamo nella grotta sono qualcosa – fa le fila per le cipolle, come fosse la Polonia o la Bulgaria di un qualche Piano socialista quinquennale. Ecco dove ci ha portati la troika, e l’ordoliberalismo tedesco, ai piani quinquennali dell’economia sovietica. Uccideranno tutti i greci, come Stalin uccideva i kulaki?
Ernesto incontrò Fidel in Messico. Fidel vi era arrivato da Cuba, dopo essere stato esiliato. Aveva guidato l’assalto al Moncada, nel 1953, erano caduti quasi tutti, li avevano arrestati. Era stato condannato a un bel po’ d’anni di carcere, poi lo cacciarono dal paese. In Messico mise assieme un po’ d’uomini, tra cui il giovane medico argentino, e decisero di ritornare a Cuba, con una piccola imbarcazione. Erano ottantadue e allo sbarco soldati e contadini li accolsero a fucilate. Come i trecento di Carlo Pisacane, quelli della Spigolatrice di Sapri – è ancora nei programmi di scuola? Sopravvissero in dodici e si rifugiarono nella Sierra. È qui che inizia il mito.
Sì, lo so, quello che si dice. Che Fidel mostrò una lettera senza data – si speculò parecchio allora – in cui Ernesto prendeva commiato e se ne andava via da Cuba. Andava a combattere altrove per la Rivoluzione. «Altri paesi nel mondo hanno bisogno dei miei modesti sforzi», scriveva. Sì, lo so che si disse che c’erano stati forti attriti tra Ernesto e Fidel per via della crisi dei missili, che l’argentino non aveva digerito che i russi avessero deciso di ritirarli, e senza neanche consultare Castro, come fossero una loro “colonia”, e che per lui bisognava insistere e smascherare l’imperialismo, che Fidel, invece, pragmatico, responsabile, pronto ai compromessi quando necessari, aveva accettato. Il 14 marzo del 1965 il Che torna a Cuba dal “Secondo seminario economico sulla solidarietà afro-asiatica” di Algeri, dove aveva attaccato duramente i paesi socialisti. Dopo due settimane si dimette da ogni incarico. Scompare. È in rotta con Fidel? Sì, lo so, che si dice che Ernesto non fosse uno dal carattere facile, che non solo questo gli costò in Congo e in Bolivia, ma anche durante la guerriglia contro Batista spesso volavano parole grosse tra i barbudos. Però, poi, Fidel, riusciva a gestire ogni cosa.
Yanis s’è dimesso dopo la vittoria del No al referendum greco. «Considero un mio dovere quello di aiutare Alexis Tsipras, nel modo che ritiene più opportuno, per ottenere il massimo dal risultato che ci ha affidato ieri il popolo greco tramite il referendum». Glielo ha chiesto Tsipras? È stata una sua decisione – dopo aver capito che all’Eurogruppo volevano la sua testa – per togliere dall’imbarazzo Alexis di chiederglielo? Forse sono vere entrambe le cose. Yanis oggi dice che Alexis lo sa che lui non avrebbe mai accettato quel piano che Alexis ha firmato. È vero. Ma il “suo” piano era stato respinto dai barbudos di Syriza. Era stato già Syriza a dimissionarlo. L’uno e l’altro – Alexis e Yanis – amano la Grecia sopra ogni altra cosa. È la loro terra, è la loro patria, è il loro popolo. Amano l’Europa sopra ogni altra cosa. Se ami la Grecia non puoi che amare l’Europa. Come ha detto il deputato greco Manolis Glezos di 92 anni al Parlamento europeo: «L’Europa l’abbiamo inventata noi, non ve la regaleremo». Come ha detto Yanis: «La Grecia è un tema europeo e deve essere risolto come ogni crisi di famiglia nella famiglia europea».
Yanis parla come lord Byron, il poeta inglese che andò a combattere per l’indipendenza greca dall’impero ottomano e morì a Missolungi: «Ho sognato che la Grecia potrebbe ancora essere libera / rimanendo sopra la tomba dei Persiani / non potevo ritenere me stesso come uno schiavo / una terra di schiavi non sarà mai mia». Yanis parla come il Che, che sognava la rinascita e la libertà per quel grande continente che è l’America latina. Don’t cry for me, Argentina.
Che mille fuochi divampino. Che mille Vietnam scoppino. Che mille Cuba trionfino.
Che mille Grecia insorgano. Dieci, cento, mille Grecia. Tutto è appena all’inizio. Il Vecchio continente s’è svegliato. La Grande Balena spiaggiata s’è mossa. Come un tempo, come ritornassero dall’epoca dei miti, sono due greci a dire di No, a mettersi in cammino. Troveranno la loro Sierra Maestra a accoglierli e accudirli per le battaglie. Sarà il Peloponneso? Saranno i Pirenei? Saranno le Alpi?
Donerà la barba a Yanis? E Alexis, che ha ormai lasciato la giacca ai creditori di Bruxelles – «Prendete pure questa», ha detto –, come starà da descamisado?

Nicotera, 13 luglio 2015

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