Il diavolo è tornato a Charleston, South Caroline.

charleston-dylann_roofCi sono posti dove il diavolo ama tornare. Al diavolo piace mostrare le sue corna, strofinare lo zoccolo sulla pietra, lasciare che il suo sentore di zolfo rimanga a lungo in un posto. È la sua vanità. È il suo mestiere, mettere paura. È il suo piacere irridere gli uomini per le loro speranze. Ci sono posti che il diavolo segna sulla sua mappa dei ricordi. Per tornare a fare visita. Uno di questi posti è Charleston, South Carolina. Uno di questi posti è l’Emanuel African Methodist Episcopal Church.
La Congregazione nacque nel 1791, una alleanza di neri liberati e di schiavi. Divennero tutti membri della Chiesa episcopale metodista. Ma nel 1816 abbandonarono i loro correligionari bianchi, per una disputa sui terreni per le sepolture. Non è difficile immaginare i motivi. A quel tempo, la chiesa aveva millequattrocento fedeli. Una forza. Si raccolsero dietro la guida di un pastore che si chiamava Morris Brown e si organizzarono in una Chiesa episcopale metodista. La stessa. Ma africana.
Fin dall’inizio fu vita dura. Brown e altri ministri della chiesa vennero processati numerose volte e messi in prigione, perché violavano le leggi che impedivano ai neri liberati e agli schiavi di riunirsi in preghiera senza la supervisione di un bianco. Nel 1822, la chiesa fu devastata da un incendio. Dissero che lì si stavano preparando i piani per una rivolta degli schiavi.
C’era un carpentiere, Denmark Vesey – avevano nomi strani, i neri una volta –, che era riuscito a liberarsi dalla schiavitù e che fu sospettato d’essere il pianificatore della rivolta. E dal momento che era uno dei fondatori della Congregazione, le autorità si convinsero che la chiesa fosse il luogo di incontro per preparare la ribellione. Così la bruciarono. Per vendetta.
Arrestarono trecentotredici fedeli e trentacinque li giustiziarono. Il diavolo raspava la terra con il suo zoccolo.
La Congregazione ricostruì la chiesa. Si incontravano di nascosto, perché erano fuorilegge, secondo le leggi dello Stato. Anche durante la Guerra civile, si riunivano in preghiera. Sempre di nascosto. Alla fine della Guerra civile, nel 1865, finalmente si riorganizzarono formalmente. Adottarono il nome Emanuel. A quel tempo era una chiesa di legno, a due piani. Ma nel 1886 un terremoto la rase al suolo. Di nuovo, la ricostruirono. In pietra. Grande. Gotica.
Durante il movimento dei diritti civili, negli anni Sessanta, era una tappa imprescindibile nelle lunghe marce di Martin Luther King. Nel 1985, fu aggiunta nel Registro nazionale dei Posti storici. La storia degli Stati uniti è così breve. La storia degli Stati uniti è talmente segnata dalla questione razziale. Il diavolo sembrava essersela scordata, Charleston. Il diavolo sembrava aver cancellato dalla propria mappa dei ricordi l’Emanuel African Methodist Episcopal Church. Non era così.
Mercoledì, di sera, un gruppo di uomini e donne si era riunito nella chiesa per pregare. Lo fanno da più di duecento anni. Leggono la Bibbia, commentano, pregano, forse cantano. Un giovanotto – bianco, felpa grigia, jeans, capelli chiari a caschetto, delle scarpe che sembrano delle Timberland – è entrato e si è seduto tra i bianchi. Non c’è una legge in South Carolina che impedisce ai bianchi di pregare insieme ai neri. È rimasto quasi un’ora lì con loro. No, non pregava e non commentava la Bibbia. Non cantava neppure. Stava lì. Aspettava. Anche gli altri aspettavano. Che arrivasse il pastore. Clementa Pinckney.
Pinckney – 41 anni, sposato, due figlie – ha abbracciato la vocazione a tredici anni. Ha frequentato l’università, si è laureato con il massimo dei voti. A 23 anni era già alla Camera dei rappresentanti del South Carolina. A 27 era al Senato degli Stati uniti. Il più giovane della storia del Senato americano. Un democratico. Era già sceso in campo a fianco della Clinton, aveva partecipato a uno dei suoi meeting. La corsa per la presidenza sarà lunga.
Quando è arrivato, Pinckney non ha fatto neanche in tempo a salutare. Il giovane bianco con i capelli a caschetto si è alzato e ha iniziato a sparare. A sparare e a sparare. Ne ha ucciso subito otto, tra cui Pinckney, e un altro è morto dopo, in ospedale. Sei donne, tre uomini. Poi, è scappato via, su una berlina nera.
Le telecamere lo avevano ripreso, e così la polizia ci ha messo poco a identificarlo. Si chiama Dylann Roof. Ieri lo hanno arrestato. Sul suo profilo facebook c’è una foto di Roof che guarda direttamente in camera. Alle sue spalle si vede una foresta di alberi piantati in una palude. Sembra un’immagine che viene dritta dalle scene di True detective, la prima serie ambientata in Lousiana. Anche lì c’era il diavolo. Uccideva donne in strani rituali. Sapeva nascondersi. Sapeva mimetizzarsi. Nella foto su facebook, Roof indossa un giubbotto con due bandierine: una è quella del Sudafrica, ma quella prima di Mandela libero e della fine dell’apartheid, e l’altra è della Rhodesia, quell’area oggi nota come Zimbabwe, e che doveva il suo nome a Cecil Rhodes, colonizzatore bianco. Il diavolo a volte ha una faccia normale. Il diavolo a volte porta i capelli a caschetto.
La campagna elettorale si è fermata. Jeb Bush doveva passare da Charleston, ma ci ha rinunciato, verrà in un altro momento. La Clinton ha rilasciato dichiarazioni commosse – conosceva personalmente Plinkney, lo stimava, come tutti del resto, una carriera in ascesa, la sua.
Ci sono uomini e donne che pregano davanti la chiesa. In circolo, si tengono per mano e stanno a capo chino. La comunità nera è disperata. Charleston è disperata. Ad aprile, Walter Scott – hanno ancora nomi strani, i neri –, un nero fermato da un agente di pattuglia e che improvvisamente aveva aperto la portiera e si era messo a correre, era stato colpito alla schiena da diversi colpi d’arma da fuoco. Il poliziotto aveva poi provato a “sistemare le cose” mettendogli un taser vicino, come se fosse stato aggredito e fosse stato costretto a difendersi. Il poliziotto aveva chiamato i colleghi raccontando la storia proprio così, e queste erano state le prime dichiarazioni. Si sentiva odore di zolfo, in giro. Però, c’era un video che qualcuno che aveva seguito tutta la scena aveva girato. E che inchiodava il poliziotto. Bianco.
Bianco, il poliziotto. Come quello che aveva sparato a Louisville, come quelli che avevano sparato a Cleveland, come quello che aveva sparato a Zion, come quelli che avevano sparato a Baltimora, come quello che aveva sparato a Ferguson. Neri, le vittime, quelli sparati. Non sempre i poliziotti bianchi vengono poi giudicati. Spesso le corti li dichiarano non perseguibili.
Clementa Plinkney – che strani nomi hanno i neri – aveva guidato le preghiere per Walter Scott. Sarà stato questo a aizzare il suprematista bianco, a fabbricare la sua vendetta?
C’è uno strano “sentimento” in giro, qui in Italia, in Europa, dove i neri non ce li hanno portati con lo schiavismo più di tre secoli fa, ma stanno arrivando ora, per cui se aiuti troppo i profughi, se sei troppo “buonista”, finisci con l’alimentare le ragioni del razzismo.
È un pensiero bizzarro, come se quegli uomini e donne in preghiera all’Emanuel African Methodist Episcopal Church, che leggevano la Bibbia e la commentavano, e forse pregavano e forse cantavano, fossero stati loro a aizzare il diavolo. Fossero stati loro a guidare la mano di Dylann Roof. Beh, le cose non stanno così.
Il demonio c’è. Il razzismo c’è. A volte ha i capelli a caschetto. Sembrano persone normali. Portano delle scarpe che sembrano Timberland. Per nascondere il piede di capro. A volte hanno delle felpe e delle magliette. Ci mettono su delle strane bandiere, il Sudafrica dell’apartheid, la Rhodesia dei coloni bianchi. A volte mettono anche la Lombardia.

Nicotera, 18 giugno 2015

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