A furia di stare dietro a Salvini e Le Pen, diventeremo come loro.

ventimiglia_migranti“Ogni nero che salviamo è un voto in più al razzismo”. Diventa moneta comune il “ragionamento” per cui se cerchi intanto di affrontare un cataclisma dell’umanità con una coperta e una scatoletta, e sai che puoi metterci solo una toppa, oggi e domani e pure dopodomani, perché quello che sta accadendo è al di là di ogni sforzo, al di là pure di ogni immaginazione, un armageddon, finisci col portare acqua al mulino di chi urla contro i negri, di chi li vuole vedere morti, affogati, bruciati, qualunque cosa comunque a tre metri dal culo mio.
Per cui, secondo il “ragionamento” anzidetto, l’unico modo di scongiurare l’avanzata dei razzisti, variamente dipinti e colorati, è quello di parlare come loro. Forse anche un tantinello più di loro. E di fare quello che vogliono loro. È il “teorema Valls”, dal nome del temerario primo ministro francese – temerario, stando almeno alle ultime notizie, per cui è volato a Berlino in aereo di Stato a vedere la finale di Champions League, portandosi dietro i figlioli, «tanto il viaggio era ormai approntato», e allo scoppio dello scandalo ha ritenuto equo versare duemilacinquecento euro di risarcimento. Manuel Valls per togliere acqua alla navigazione di Marine Le Pen ha pensato che fosse meglio essere più nazionalista di lei, di urlare contro l’immigrazione più di lei, di sfoggiare i muscoli più di lei. Più di lei e di Sarkozy messi assieme, anzi. È per questo che ha mandato la Gendarmerie e la Police National con i pennacchi e con le loro camionette e in assetto antisommossa al confine con l’Italia, al valico di ponte san Ludovico, a Ventimiglia. C’erano quaranta profughi da “fronteggiare”. Quaranta. Suona la Marsigliese, sventola il tricolore, Vive la France. Quel courage, davvero, come siete eroici. Liberté. Égalité. Fraternité. Fanculo.
È la paura della destra che sta fottendo l’Europa. Che sia la tedesca Pegida, o la Lega di Salvini, o i polacchi o gli ungheresi o gli estoni o i fiamminghi, i politici europei hanno una paura fottuta della destra. Hanno ragione, certo. Ma non è colpa dell’immigrazione, non più di quanto fosse colpa degli ebrei quella di essere ebrei. Hanno ragione, certo. Ma non è lasciandosi intimorire, non è inseguendo la loro follia, non è disconoscendo quanto è stato fatto e quanto ancora può essere fatto, che si ferma la destra. Non è mimetizzandosi da destra che si ferma la destra. Non ha funzionato in economia, e ci ha portato al disastro, non funzionerà neppure con l’immigrazione. E chissà cosa potrà accadere.
Il presidente Jean Claude Juncker insiste sul “piano di responsabilizzazione” dell’Europa. Non fa più riferimento alle “quote” anche perché da una parte nessun protocollo era stato realmente sottoscritto e c’era un’intesa molto lasca, ma soprattutto perché nessuno immaginava – anche secondo i calcoli più pessimistici – quello che sta accadendo. Juncker parla al deserto. Lo sanno tutti che l’ha messo lì la Merkel. Aveva provato a ritagliarsi uno spazio, a fare da mediatore, presentando una propria proposta per la Grecia, e è finita che Tsipras e i suoi hanno detto che tanto vale parlare direttamente con Schäuble e i tedeschi. Non conta una ceppa, Juncker. E non è una buona notizia.
Nessuno vuole i negri. Nessuno li vuole a casa propria. Nessuno li vuole in Italia. Il fatto è che pure i negri non vogliono stare in Italia. E non perché c’è la crisi, e non si può togliere un tozzo di pane a un italiano e darlo al negro, o non si può trovare un tetto al negro quando ci sono tanti italiani che stanno per strada. Queste sono stronzate. Ci sarebbe tanta ricchezza in questo paese che potremmo dare da mangiare a mezzo mondo, e ci sono paesi abbandonati e campagne senza braccia e industrie e commercio e artigianato che non riescono più a produrre un bottone e ci sarebbe tanto bisogno. Solo che la crisi ha preso la piega che ha preso, di una maggiore redistribuzione della ricchezza, cioè sta continuando a togliere di sotto per continuare a accumulare di sopra. E questo lo hanno capito pure a Ouarzazate, lo hanno capito pure a Libreville, lo hanno capito pure a Bamako. Lo hanno capito perché da sempre succede pure da loro. Succede in maniera intensiva, diciamo. E cosa mai può pensare una madre eritrea che mette al mondo un figlio di diverso da una madre estone o ungherese o fiamminga, cosa può desiderare se non che quel figlio possa andare a scuola, farsi una strada, trovare un lavoro, vivere una vita serena? Perché dovrebbe far pagare al figlio il “destino” d’essere nato in un posto di merda? E un tempo, quando nascere figlio di operaio o di zappatore era nascere con un “destino” segnato, nascere al posto sbagliato, che se la cicogna si fosse fermata un po’ più in là eri figlio del baronetto, cosa spingeva le madri a lottare? Liberté. Égalité. Fraternité. Fanculo.
Dicono che si potrebbero rimandare a casa loro. Ce l’avessero ancora una casa, che so i siriani dove li rimandiamo, a Palmira? Oppure da Assad? E i libici, dove li rimandiamo, a Bengasi, a Tobruk, in quella Tripoli del cazzo? Potremmo fare come pare abbiano fatto gli australiani, almeno sinora il primo ministro Abbott non ha smentito. Invece di sparargli, agli scafisti, che portano carne umana dal Bangladesh, dal Myanmar e dallo Sri Lanka, ha dato loro dei soldi. Prima ha ammassato i rifugiati in isolette sperdute nel Pacifico, in condizioni bestiali, poi ha chiamato gli scafisti, li ha pagati e gli ha detto di portarli indietro, nei paesi d’origine. Potremmo fare pure noi così. Forse il ministro Gentiloni ha chiesto più soldi all’Europa per questo, che i nostri non bastano. Gli scafisti ci starebbero, penso. Doppio viaggio, doppio guadagno. Li portano di qua del Mediterraneo, li rifocilliamo, alla stazione di Milano o alla Tiburtina o in un qualunque centro di detenzione, gli facciamo la doccia, e se hanno la scabbia li spruzziamo col DDT, e poi ripuliti, con qualche felpa, un paio di bottiglie d’acqua, una tessera telefonica e due coperte, li rimandiamo di là del Mediterraneo. Potrebbe essere un’idea, no?
Potremmo fare come Chamberlain, che offrì agli ebrei di trasferirsi in Uganda. Il clima era buono e sopportabile e c’era tanta terra da coltivare. Ci ragionarono su davvero, gli ebrei, e mandarono una delegazione a controllare. Ci sono troppi leoni – scrissero in un report – e i Masai non sembrano molto contenti di vederci qua. Non se ne fece niente. Forse i siriani o gli eritrei avranno meno fisime degli ebrei, e con i Masai non si troveranno poi male. Oppure potremmo fare come Stalin, che per toglierseli dai coglioni gli aveva inventato pure una nazione, il Birobidzhan. L’aveva ricavata tra la Crimea e l’Ucraina, e a molti ebrei non parve vero poter trovare finalmente riparo dai pogrom. Anche lì, gli ucraini non sembravano proprio contenti di vederli. Poi Stalin cambiò idea, per una qualche sua purga del cazzo, e decise di arrestarne un po’ e mandarli da un’altra parte, in Siberia magari. Il resto lo fecero ucraini e nazisti.
Ci sarà un posto dove metterli, tutti st’immigrati, no? In Patagonia, in Groenlandia. L’Europa potrebbe finalmente trovare una linea comune e organizzarsi e mostrarsi compatta nell’affrontare e risolvere insieme un problema. Così Salvini non strillerà più e neppure la Le Pen. E noi navigheremo sicuri.
Trattiamo gli immigrati come pacchi o come bambini, come se non avessero una testa. Non hanno una voce, è vero, non ancora. Ma parleranno, prima o poi. Oh, se parleranno.
Liberté. Égalité. Fraternité.
Fanculo.

Nicotera, 13 giugno 2015

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