Circa sessant’anni dopo essersi laureato all’università di Torino in Filosofia, il professore Umberto Eco c’è tornato, per ricevere una laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media”. È diventata un po’ una moda, questa dei rettori che distribuiscono lauree honoris causa a personaggi famosi. Non che Eco non la meriti, e se è per quello potrebbero pure dargliela in fisica nucleare o matematica, cosa che a quanto pare lo avrebbe divertito di più. I rettori che omaggiano – che so a Paolo Sorrentino a Napoli la Federico II l’ha data in Filologia Moderna, dopo l’Oscar – devono destreggiarsi fra caduta verticale delle iscrizioni, concorrenza sleale di altre università, soprattutto private, e assegnazione di fondi sulla base di alcuni parametri, per raggiungere i quali sarebbero pronti a tutto. Diciamo che un bel po’ di pubblicità, a seguito del personaggio famoso, non guasta. La cerimonia è stata preparata con cura – peraltro si temevano contestazioni da parte degli studenti per via del sostanzioso aumento delle tasse –, e il rettore ha motivato la consegna della laurea, e di un fascicolo contenente tutto il percorso universitario di Eco a Torino, «per aver grandemente arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, per aver rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e la teoria semiotica, per la sintesi originale di teoria, intervento culturale e scrittura letteraria che caratterizza la sua vastissima produzione». Wow.
Eco, da parte sua ha tenuto una lectio magistralis sulla “sindrome del complotto”. Non ho trovato il video integrale della lectio di Eco, e per il putiferio che si è scatenato tutta l’attenzione si è concentrata su alcune sue frasi. Ma non ho alcuna difficoltà a immaginare che Eco abbia parlato di quelli che sono convinti che lo sbarco sulla Luna fosse in realtà in uno studio di Hollywood, che a Roswell sia detenuto un alieno e da mo’, che l’11 settembre sia stato preparato dal Mossad, che nessun aereo è mai caduto sul Pentagono, che ci sono le scie chimiche, cioè che le scie rilasciate dagli aerei siano composte da agenti chimici o biologici, spruzzati in volo per mezzo di apparecchiature montate sui velivoli, per finalità non meglio precisate. Insomma, tutta la paccottiglia della Conspiracy theory. La teoria del complotto non è certo nata adesso: quando non c’era ancora internet e l’isolazionismo americano confinava con aperte simpatie col nazismo e il fascismo, e nessuno amava una guerra “voluta dagli ebrei”, e i giapponesi attaccarono Pearl Harbour, ci fu chi provò a dire che Roosevelt sapeva tutto, e che avesse appositamente aspettato l’attacco. La teoria del complotto è roba antica: Iago intriga per far ritrovare a Otello un fazzoletto di Desdemona e convincerlo del tradimento di lei, e il fantasma del padre che tormenta Amleto sussurrandogli di essere stato assassinato dallo zio, versandogli nell’orecchio una pozione, che altro è? Shakespeare era uno straordinario tessitore di Conspiracy theory. Potremmo dire che lo stesso Eco sia stato un eccellente narratori di complotti – Il nome della rosa e frate Jorge da Burgos, e Il pendolo di Foucault fra sefirot della Cabala, Templari e massoni, che altro sono? Perché il punto è questo, signora mia, la teoria del complotto non è più quella di una volta. Un po’ come per tutte le cose, il calcio, le albicocche, la torta di mele, il posteggiatore, la democrazia.
Il professore Umberto Eco è infastidito dalla presenza di “legioni di imbecilli” che su twitter hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. Cosa peraltro non vera, benché io mi preoccuperei di più se un premio Nobel dice cose da imbecille, il che capita non di rado. Ammette, a denti stretti, il professor Eco che twitter possa essere di grande aiuto, che so in Cina, in Turchia, per “fare opinione”, ma da noi abbasta. Il fatto è che gli imbecilli non sono cresciuti esponenzialmente per via di internet né tanto meno che abbiano finalmente trovato un modo di esprimere urbi et orbi il loro parere sulle cose, mentre prima «stavano all’osteria e se dicevano qualcosa dopo due o tre bicchieri di vino, li si tacitava».
Quello che è andato in crisi è l’autorità, l’autorevolezza, la distinzione. Quella che è andata in crisi è “la parola del re”. Un brusio continuo, una cacofonica e dissonante eco di frasi dette, prese restituite, ridette, riprese, è l’ininterrotto rumore di fondo che ha sostituito le distillate profezie dei sacerdoti, dei clerici, degli intellettuali. La loro sacralità. Una volta bastava essere un professore universitario – che in tutta la vita avevi studiato la navigazione fluviale in Europa tra il 1436 e il 1578 – e eri un’autorità “di opinione”. Non è più così. Avere un’opinione non è altro che un mestiere, una cosa tecnica, come saper riparare i rubinetti di casa che perdono. Certo, mi rivolgo all’idraulico, se la cosa è grave, se l’acqua è arrivata fino in camera da letto. Finché posso, mi affido al fai da te. Il fai da te dell’opinione. L’opinione è un bricolage. E come trovi su internet migliaia di ricette per fare un’omelette – e non tutte sono una bufala – così posso trovare opinioni su quel che accade. Almeno, posso provarci.
Legioni di imbecilli credono come farlocchi alle bufale che girano sui social network? Beh, legioni – e davvero – di imbecilli hanno creduto a ideologie ben più feroci, e si intruppavano, e sfilavano in marcia, e si armavano e cantavano, e avevano gli occhi luccicanti e la testa fumante. Non c’era twitter, al tempo. No.
Nicotera, 11 giugno 2015