Glenn Grenwald ci ha vinto il Pulitzer, l’altr’anno, con una serie di reportage per il «Guardian». Pulitzer Prize for Public Service, 2014. Laura Poitras ci ha vinto l’Oscar per i documentari, quest’anno. Oscar for Best Documentary, 2015, Citizenfour. La storia ormai la sanno tutti.
Nel gennaio 2013, la documentarista Laura Poitras inizia a ricevere delle e-mail anonime e criptate di un tale “Citizenfour”. Citizenfour altri non è che Edward Snowden, un impiegato della National Security Agency (Nsa), che afferma di avere in mano le prove di un programma di sorveglianza illegale manovrato appunto dalla Nsa. Citizenfour invita la Poitras e il giornalista freelance Glenn Greenwald a Hong Kong, dove è appena fuggito e si sta nascondendo, per rivelare di fronte a una videocamera tutta la verità sullo scandalo di Stato. Lui li ha seguiti sul web, ha letto e visto cosa dicono e fanno, li ha scelti. La Poitras e Greenwald sono pieni di dubbi e perplessità, temono una trappola, chiedono a avvocati e esperti di diritti costituzionali, poi decidono di incontrare Snowden in un hotel di Hong Kong e lo intervistano in grande segretezza. Criptano tutto il materiale e ritornano indietro. La Poitras e Greenwald insieme lanciano «The Intercept», una pubblicazione online in cui riportano, in sintesi, tutto il materiale che è stato svelato da Snowden. Al lancio, annunciano: «A primary function of The Intercept is to insist upon and defend our press freedoms from those who wish to infringe them», il primo scopo di The Intercept è insistere e difendere le nostre libertà di stampa da tutti quelli che intendono violarle. Ne viene fuori il Datagate, uno scandalo enorme sulla violazione della privacy in nome della sicurezza nazionale. Era stato il Patriot Act, la controversa legge voluta da George W. Bush dopo l’11 settembre, che aveva fornito “loro” la copertura legale al programma globale di intercettazione delle informazioni.
«Loro» erano i Five Eyes, i Cinque Occhi: le cinque potenti agenzie segrete di Australia, Canada, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Regno Unito, occhi e orecchie sulle comunicazioni internazionali capitanati dalla National Security Agency Usa insieme al Gchq britannico. Prism, Tempora, Boundless Informant, XKeyscore, Dropmire, Turbine e molte altre sigle curiose, enigmatiche, affascinanti, dietro cui milioni di utenti venivano monitorati attraverso vari mezzi dentro e fuori gli Stati Uniti, intercettazioni nelle ambasciate e nei consolati, ambigui sodalizi con le big company del web per infiltrarsi nei social, nei giochi, in ogni genere di portale, software preinstallati nei server e nei dispositivi prima che venissero distribuiti agli acquirenti, social network e dorsali di comunicazione sotto controllo. Un incubo.
È da qui che bisogna partire per capire quello che è successo ieri negli Stati uniti, con l’approvazione del Freedom Act.
Obama aveva twittato: «Felice che il Senato abbia approvato il Freedom Act. Protegge le libertà civili e la nostra sicurezza nazionale. Lo firmerò non appena lo riceverò». Detto, fatto. Dopo pochissime ore il testo era già stato firmato dal presidente. Il Freedom Act ribalta il sistema di sorveglianza entrato in vigore dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. La nuova legge chiederà alle compagnie telefoniche, come Verizon Communications Inc e AT&T Inc, di raccogliere e immagazzinare i “metadata”, che poi è quello che già facevano. Solo che, invece di girare questi dati alle agenzie governative, le società saranno tenute a inoltrarli solo in seguito a una esplicita richiesta del governo, approvata da un Tribunale di sorveglianza. Cambia tutto, sulla carta.
La questione era finita in tribunale nel 2013 su iniziativa dell’American Civil Liberties Union, un’organizzazione non governativa per i diritti civili. L’American Civil Liberties aveva sollevato una questione di incostituzionalità della sorveglianza in quanto violazione della privacy dei cittadini. C’era stata un’archiviazione, nel dicembre 2013. Poi, un appello. Agli inizi di maggio, la decisione della Corte d’Appello di Manhattan che va nella direzione opposta: il giudice Gerard Lynch, in una sentenza lunga 97 pagine, afferma che «una tale espansione nella raccolta di dati dei cittadini è una restrizione senza precedenti della privacy dei cittadini». La Corte perciò non si era espressa sull’incostituzionalità della norma, ma affermava che la Nsa aveva scavalcato la stessa legge.
La decisione della Corte d’Appello di Manhattan arrivava proprio poco prima che scadesse (la mezzanotte del 31 maggio) la sezione 215 del Patriot Act. La sezione 215 era il passaggio normativo sul quale la Nsa diceva di basarsi per la raccolta massiccia di dati.
Glenn Greenwald twittò subito: «Questa decisione respinge in modo chiaro il tentativo dell’amministrazione Obama di interpretare il Patriot Act come via libera per la sorveglianza».
Era vero. In parte. Barack Obama aveva sì sollecitato un rinnovo-ponte della normativa, ma in attesa dell’approvazione del Freedom Act, già licenziato dalla Camera ma non ancora dal Senato. Non era possibile restare in un “buco normativo”. In un “buco normativo”, le discrezionalità diventano impossibili da controllare. Dopo la sentenza, attraverso il portavoce della Casa Bianca, Obama chiarisce che la raccolta di metadati legata alla Sezione 215, così come è esistita finora, deve cessare. «Bisogna creare un meccanismo alternativo, pur mantenendo i tratti essenziali di quel programma», dice. «Lavoreremo con i senatori democratici e repubblicani», dice. Solo che a questo punto succede una cosa americana.
Succede che Rand Paul, senatore e candidato alle primarie per il Partito repubblicano, riesce a bloccare il rinnovo delle sezioni del Patriot Act, in particolare la sezione del 215. Rand Paul è, o è stato, un seguace di Any Rand, nata a San Pietroburgo nel 1905 come Alisa Zinov’evna Rozenbaum. È l’autrice di La rivolta di Atlante, il libro cult di un individualismo libertario esasperato. Rand Paul è il primo caso di candidato alla presidenza degli Stati uniti firmatario di una proposta di legge che porterebbe alla legalizzazione della marijuana. È il primo candidato repubblicano che, se vincesse la nomination, sarebbe meno falco in politica estera della sfidante democratica prevista, Hillary Clinton; perché non vuole che lo Stato spenda troppo, a casa e soprattutto fuori. Il primo a accettare contributi elettorali in bitcoin; un liberista (loro dicono di sé, un libertarian) spericolato. Un libertario populista, forse. Un osso duro da battere.
Lui, Rand Paul, blocca il rinnovo del Patriot Act, sostenendo che si può battere il terrorismo senza stravolgere i diritti dell’individuo. I “suoi” repubblicani guidati da John McCain, che si presentò contro Obama e perse, gli dicono che stia badando più ai suoi interessi elettorali, alla sua visibilità, che a quelli della nazione. C’è ruggine fra Rand Paul e John McCain: tempo fa Paul lo accusò di intrattenere rapporti con l’Is, perché era andato in Siria, con Bernard Kouchner e altri, a cercare una iniziativa di pace. Forse sono schermaglie elettorali, forse sono caratteri diversi di un’America che non finisce di sorprenderti, anche in politica.
Bloccando il rinnovo del Patriot Act, inizia il caos. Alle 19 e 44 del 31 maggio la Nsa “spegne” ufficialmente la raccolta dei metadati: una mossa necessaria per rispettare la deadline di mezzanotte.
Poi, in Senato, si è trovato un accordo, una mediazione. Il Freedom Act è legge. Non sarà la migliore delle leggi possibili, ma non è il Patriot Act. Avercela noi, una legge così, con tutte quelle intercettazioni che levati. A meno che, tra un paio d’anni, un altro Citizenfour, un altro Edward Snowden non ci spieghi che cosa stiano combinando per continuare a sorvegliarci giorno e notte. «Loro». I Five Eyes.
Nicotera, 3 giugno 2015