È la prima volta che il Partito democratico ha tutti i governatorati del Sud, isole comprese. A pensarci bene, è la prima volta nella storia della sinistra democratica in Italia. Non solo di quella repubblicana, dico. E neppure a Berlusconi, se non ricordo male, riuscì una cosa simile. Una volta o l’altra, durante i suoi governi, per una cosa o l’altra, una qualche regione gli sfuggiva. Per trovare una situazione paragonabile, bisogna risalire agli anni d’oro della Democrazia cristiana.
Un paragone molto relativo. Dal sud democristiano, isole comprese, sono venuti fuori gente come Colombo, Cossiga, Moro, Restivo, Gava, Sullo, Andreotti, Leone, Segni, Scelba – basta così, credo –, cioè politici che ebbero un “peso” determinante non solo nel partito, ma nel governo e nel paese. È difficile pensare che il professor Pigliaru, governatore della Sardegna, diventi un uomo di caratura politica nazionale; e così è per Mario Oliverio, dalla Calabria, per Pittella, dalla Basilicata, per De Luca dalla Campania, per Crocetta dalla Sicilia, e via di questo passo. Chissà, forse a Zingaretti – che il Lazio, a pieno titolo, può essere considerato del Sud – toccherà sorte diversa. Forse in un Pd diverso da quello che è adesso, comunque. Nel Pd renziano, invece, capita che diventi governatore nonostante Renzi (e viceversa, capita che non ci diventi se sei renziano, vedi Paita e la Moretti): così è per Oliverio, bersaniano di ferro, almeno fino a un ieri certificato. E per Emiliano, e per Pittella – il cui fratello Gianni si presentò alle primarie contro Renzi, raccogliendo un più che lusinghiero dieci percento nel Sud –, e per Crocetta, che si fece un partito tutto suo, il Megafono, e pure per De Luca, di cui semmai è stato Renzi a beneficiare e non il viceversa.
I governatori del Sud non conquisteranno il governo, e neppure il paese. Sembra piuttosto che siano animati da un forte spirito territoriale, inteso come territorio elettorale, come circoscrizioni in cui si vota. Sono piuttosto viceré, compradores, governano cioè in nome di un potere che resta lontano. Non sono capi-corrente, ma capi di tribù politiche di un qualche sperduto territorio amerindio. E se sono cavalli di razza, devono essere di una qualche razza non ancora certificata. Niente è più lontano dal cerchio magico renziano del Sud. Vedere la Boschi che dà un bacetto a De Luca è una di quelle cose contro natura che levati. Niente è più lontano del Sud dal partito della Nazione. Niente impensierisce l’esercizio del potere da parte di Renzi meno del Sud.
Eppure, il fatto rimane e è storico, non può essere confinato alla cronaca politica, o alle analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Certo, potrebbe raccontarci di come sia cambiato il Partito democratico, la sua classe dirigente meridionale, i suoi elettori. Potrebbe anche raccontarci di come sia cambiato il Sud, e di cosa sia diventato, stia diventando nella crisi.
Nessuno dei nostri governatori ha il simpatico caschetto di Nicola Sturgeon, la pasionaria della Scozia che ha inflitto un sonoro schiaffone al partito di Ed Miliband conquistando tutti i collegi elettorali e minaccia la serenità di navigazione di Cameron. Ci sono troppi calvi (Zingaretti, De Luca, Oliverio), troppi baffi (Emiliano, Pittella), e chi non ha i baffi e invece ha i capelli, se li tinge di un improbabile colore come Rosario Crocetta. La differenza è femmina, certo. Epperò, se uno prova a stressare le cose per ricavarci un qualche ragionamento, non è del tutto peregrino provare a soffermarsi su un paragone tra la Scozia e il Sud, tra la Sturgeon e i nostri governatori meridionali.
Non c’è in Europa partito più europeista dello Scottish National Party. Può sembrare paradossale, ma gli scozzesi – che sono stati e sono tante cose – non sono fessi. Avevano appena perso un referendum, che hanno vinto le elezioni. Costringeranno Cameron a una devolution fortissima, e a una cartografia del potere che ceda sovranità senza perderla. La Sturgeon vuole trattare direttamente con l’Europa, ci rimanga o meno Cameron, con il suo referendum del 2017. Vuole, cioè, discutere personalmente e senza la mediazione di Londra, di fondi, di fisco, di investimenti, di bilanci.
Se ci si pensa, non c’è luogo europeista in Italia più del Sud. Dove passa Salvini, benché si tenga lontano dalla secessione bossiana e pure dal federalismo, il discorso – diciamo così – è fortemente improntato all’antieuropeismo. E d’altronde, il suo “sogno politico” è impalmare la nazionalistissima Le Pen. Dove passa Grillo, il discorso – diciamo così – è fortemente antieuropeista. Benché non abbia mai messo in pratica quel referendum sull’Europa – che a mio modesto parere avrebbe dovuto fare all’indomani dell’incredibile risultato alle politiche, invece di perdere mesi a parlare di scontrini e ricevute –, l’attacco alla Merkel, a Schauble e alle politiche tedesche è continuo.
Nel Sud – che è stato e è tante cose – non sono mica fessi, proprio come gli scozzesi. Senza i fondi strutturali dell’Europa quelle quattro cose che ancora camminano si fermerebbero, e se si fermassero pure quelle sarebbe un disastro ancora maggiore di quello che è. La crisi ha ridisegnato la funzione delle classi sociali. Non ha colpito il pubblico impiego, lo Stato e il parastato, che nella sua stabilità economica – lo stipendio fisso, gli stipendi fissi quando, e è quasi regola comune, in casa si lavora in due nel pubblico – ha mantenuto un pezzo di stabilità del Sud. Ma ha sfracellato l’edilizia, il commercio, la piccola e media industria. Ha cioè sfracellato ogni dinamica “borghese”, nel senso economico più che in quello di una certa appartenenza di classe, dato che “borghese” non può certo essere definito il ceto sociale che vive di Stato e parastato, perché o è “miserabile” – guadagnando troppo poco – o è “parassita”, guadagnando tanto e strafottendosene di quel che ha intorno. Orrore compreso.
La “domanda d’Europa” che viene dal Sud non è quindi per nulla parassitaria o criminale, nel senso che pensa solo alle minne da mungere della vacca, e a come fotterla. È una domanda di modernità. Di quella modernità che non è venuta dal proprio paese – l’Italia. O che si è perduta nel proprio paese.
In un qualche modo spericolato, e in buona parte senza rendersene conto, il Partito democratico nelle regioni meridionali sta raccogliendo quella domanda. Sta cioè facendosi vettore di una richiesta d’Europa che viene dal Sud. Un’altra Europa vuol dire, nel Sud, la possibilità di un altro Sud. Sarà magari una strogolata, ma non si vede, al momento, altro modo di pensare un altro Sud. Qualsiasi cosa sia diverso da quello che sta diventando, che è diventato. Un altro Sud non passa per un altro governo d’Italia. Li abbiamo già provati tutti, buon ultimo il governo Renzi. Non sembra cambi granché. Forse è il tempo di parlarci direttamente con l’Europa.
Questo sentimento d’Europa, di un’altra Europa che possa significare un altro se stessi, è molto simile al sentimento che viene da Podemos e dalla “battaglia d’Atene”, il disperato tentativo del governo di Tsipras di tenere testa alle follie economiche di Berlino, della Finlandia, dell’Olanda, insomma degli Stati-canaglia del Nord.
Dal Sud d’Italia, isole comprese, non verrà fuori però nessun Podemos – e d’altra parte se uno legge il programma-manifesto di Landini&company, ti prende lo sconforto, se vivi qui. E non verrà fuori nessuno Tsipras. Sono fenomeni “metropolitani”, che nascono in realtà composite e complesse – Atene, Madrid, Barcellona –, con mobilità sociali fortissime, e sperimentano movimenti immediatamente enormi e poi aggregano e calamitano, come fanno le palline di mercurio più grosse con le più piccole.
La differenza è femmina, certo. Però, pur se nessuno porta il simpatico caschetto della Sturgeon e indossa la sua consapevolezza politica, i governatori del Sud – quelli “nuovi” (De Luca, Emiliano) e quelli “vecchi” (Zingaretti, Pigliaru, Pittella, Crocetta, Oliverio) – potrebbero fare partito. E muoversi come un partito. Fare politica di partito. Non quello che hanno, il Pd, ma un altro. Il nome già lo avrebbero, mutuandolo. SNP. Sud National Party, invece che Scottish National Party. Quanto meno, porta bene.
Intanto, potrebbero incontrarsi, i calvi, i baffuti e quelli che si tingono i capelli di un colore improbabile. Prendere un caffè, calarsi un cannolo, bersi un limoncello, parlare di Sud, parlare d’Europa. Riconoscersi. Un incontro, un convegno. Magari non sarebbe come il Parlamento scozzese, però, sarebbe una qualche cosa.
Nicotera, 2 giugno 2015