Penserete che io lo dica per dire un paradosso, o che vi sia una malcelata ironia, invece lo penso davvero. Berlusconi, ora che sta fuori dalla politica, si sta mostrando un gran politico. Lo ha ripetuto ieri, a Saronno, Varese – un cinquantenne con intenzioni presumibilmente aggressive è stato bloccato immediatamente –, dove era andato a sostegno della campagna elettorale del candidato sindaco Pierluigi Gilli: «Ormai sono fuori dalla politica» Voi penserete che sia solo una boutade, o più semplicemente una bugia, un’arma di distrazione. Invece, io ci credo. La sua, e la nostra, “maledizione” – passare alla Storia come un grande statista e intanto agire in politica per i propri interessi personali, per la propria bottega – è sempre stata questa, una meschinità reale affabulata e spacciata per un grande disegno intelligente, fosse fermare i rossi e cacciarli dal tempio delle istituzioni, fosse modernizzare il Paese, svecchiandolo finalmente da corporazioni e lobby, liberalizzando mercato, imprese e lavoro. Quando “scese in campo” – era il 1994 – la Prima repubblica era a pezzi e l’elettorato moderato, quello che aveva sempre votato Democrazia cristiana, allo sbando. In tre mesi mise insieme un movimento, Forza Italia, e vinse le elezioni. Lo votò chi credé alle sue parole e promesse, meno tasse meno Stato. Un elettorato complesso, stratificato, articolato, perché intanto l’economia del Paese era cambiata e anche i soggetti produttivi. Berlusconi guardava al bipolarismo a vocazione maggioritaria, annunciava la rivoluzione liberale, menzionava la Thatcher e Reagan, puntava su una netta polarizzazione tra destra e sinistra, togliendo spazio a ipotesi di centrismo. Invece. Sapete tutti come è andata.
E ora, che un gran salasso economico gliel’ha fatto De Benedetti (buono quello!), e un altro, uno stillicidio milionario, gliel’ha fatto la moglie e lui non ha più i dobloni da mettere sul piatto per smuovere le cose; ora che è arrivato sul punto di vendere il Milan, che dev’essere come lasciare il figlio diletto davanti la ruota dell’orfanotrofio; ora che gli impresentabili, le facce da galeotto e quelle da farti venire i brividi su per la schiena – i Dell’Utri, i Previti, gli Scajola – si sono o li hanno tolti via fuori dalle balle; ora che sono scomparsi figli politici di primo letto e figliocci di secondo, comparelli e comparucci, nani e ballerini; ora che si è fatto infinocchiare da quel venditore di saponette di Renzi come fosse un babbalucco qualunque e non fosse stato, proprio lui, il più grande venditore di saponette mai visto in Italia; ora che persino quello a cui mancava il “quid”, Alfano, sembra essersi fatto crescere le palle di sotto ma solo per dare addosso a lui, che l’aveva preso, l’aveva ripulito, gli aveva insegnato come stare seduti a tavola e poi l’aveva mandato per il mondo; ora che un suo erede praticamente designato, Fitto, gli si è rivoltato contro politicamente e non vuole saperne di trovare un accordo, e lava i panni sporchi in piazza, e gli fa la guerra dentro casa, e sembra voler bastonare il cane mentre annega come fosse la cosa più giusta da fare. Ora che nessuno sembra capire che è il momento più debole per il centrodestra in Italia, e che di questo pare preoccuparsi solo la grande borghesia, quella proprio che per vent’anni gi ha dato addosso, perché che democrazia è quella in cui non esiste opposizione, come se alla grande borghesia fosse mai fregato un fico secco dell’opposizione e pure della democrazia. Ora, che c’è tutto questo, l’uomo mostra una quale grandezza.
La lettera del 9 maggio al «Corriere della Sera» – dal titolo: «L’Occidente e l’errore di voler isolare la Russia di Putin» – in cui stigmatizzava la decisione dei leader europei di non prendere parte alle celebrazioni a Mosca per il settantesimo anniversario della Seconda guerra mondiale, oltre che come una mancanza di rispetto un gesto di miopia politica, era uno sguardo da politico di prima grandezza e di una levatura non certo provinciale. Costringere la Russia a «scegliere l’Asia e non l’Europa» non è una strategia lungimirante, soprattutto pensando alle sfide che l’occidente ha davanti, da quelle militari, geopolitiche, a quelle economiche. Insomma – concludeva Berlusconi – «quelle poltrone vuote sulla Piazza Rossa non sono una prova di forza, ma l’emblema di una nostra sconfitta». Parole da leader europeo, altro che i sorrisini di Sarkozy e Merkel.
E vogliamo parlare del “partito repubblicano all’americana”? Può darsi che con l’approvazione dell’Italicum si riproponga la situazione di vent’anni fa: una legge elettorale su misura (allora fu Occhetto che se la ereditò dalla Dc in pieno cupio dissolvi, Renzi ci sta puntando tutto il suo prossimo ciclo di potere politico). Vent’anni fa a Berlusconi riuscì di mettere insieme tutto il centrodestra, e di ribaltare la scontata vittoria dell’ex-Pci. E ora, come impedire che il popolo dei moderati, di nuovo disperso e frammentato, torni a essere marginale? Eccolo l’ennesimo coniglio dal cappello: l’elefantino all’americana.
Finora se n’è capito poco, è sembrata più un’evocazione, una suggestione che un progetto preciso. Non sarà un nuovo partito: quelli che ci sono bastano e avanzano. Non sarà una riedizione del Popolo della Libertà, che non ha funzionato proprio per nulla ultimamente. Non sarà una coalizione di partiti, che la nuova legge non incoraggia, e che non funziona. Più probabilmente un coordinamento elettorale, con poche regole chiare, al quale possono partecipare partiti, associazioni di singoli cittadini, che si ritrovano su un programma, per quelle elezioni, e per governare con alcuni obbiettivi concreti. Una cosa snella, senza apparati, senza sedi, senza spese fisse (che già adesso ci sono le fidejussioni che vanno scadendo e nessuno sa dove trovare i soldi). Forse non riuscirà a compiere di nuovo il “miracolo” del ’94 – i miracoli, come le bombe, non capitano mai due volte nello stesso posto – e forse è invece vero che Berlusconi ha esattamente chiaro il quadro realistico, le percentuali elettorali che ci sono e quelle che verranno, e punta a mantenere solo una pattuglia di fedelissimi, una cinquantina di parlamentari, e va bene così. Pure, bastasse solo a impedire che l’elettorato moderato smotti verso le nequizie di Salvini, basterebbe già solo questo, per fare della resilienza di Berlusconi un segno di grandezza politica.
Fitto ha ufficializzato l’uscita da Forza Italia. Il Cavaliere non si è scomposto: «Ci siamo tolti un peso». Sembra – non sorprenda l’accostamento, la storia è bizzarra – l’eco togliattiana del «Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato», quando il Gran capo comunista fece spallucce e trattò con sufficienza le questioni che lo scrittore siciliano aveva posto.
E ora le regionali, dopo la scoppola delle amministrative e, tutto lo lascia presumere, quella dei ballottaggi. Quelle percentuali scandalose erano messe in conto? Chissà. Certo, Renzi pensa a un sette a zero, come fosse il 61 a zero siciliano del 2001 – vedete che la storia è bizzarra? –, quando Forza Italia rastrellò tutti i collegi elettorali che c’erano da rastrellare. Andrà così?
Chissà. Ora, certo non è che siccome la Juventus ha battuto il Real Madrid finendo in finale di Champions, tutte le mattine il mondo ci manda una sorpresa. Però, se quel sette a zero – Boschi dixit – fosse invece un sei a uno, un cinque a due, e – sorpresa à la Juventus – un quattro a tre?
Beh, dovremmo proprio ripensare il renzismo e Renzi.
Beh, dovremmo proprio ripensare il berlusconismo e Berlusconi.
Roma, 18 maggio 2015