Renzi e l’Italicum: un De Gaulle minore per un paese stremato e avvilito

La Garzanti linguistica definisce così ‘o guappo ‘e cartone: «persona che nasconde dietro l’arroganza e la sfrontatezza una reale debolezza». Sarebbe potuta essere una definizione colorita e efficace del premier Renzi, se fosse caduto sulla fiducia posta per l’Italicum, la nuova legge elettorale, ma a quanto pare l’arroganza e la sfrontatezza accompagnano una reale forza. Renzi ha minacciato sfracelli, ha minacciato di salire al Colle e rimettere il mandato, ha minacciato – e questa è proprio l’ultima spiaggia per chi vive di politica – di tornare a elezioni, togliendo così la seggiola sotto diversi sederi, e però tutto gli si sarebbe sfrantumato tra le mani, se. Se. Invece, eccolo lì, gongolante, ancora una volta i numeri gli hanno dato ragione, la sua indifferenza rispetto le questioni poste dalla minoranza del suo partito mostravano una sicurezza che si è verificata concreta e precisa: il voto dell’altro ieri rispecchia quello del Jobs act. Se un’opposizione a Renzi c’è, non sta nei numeri del parlamento. La domanda è: c’è un’opposizione a Renzi, o l’uomo si è ormai preso tutto il cucuzzaro?
Di questo sembrano preoccuparsi costituzionalisti e politologi. Per i primi, cito Michele Ainis, che sul «Corriere della Sera» indica alcune modifiche che si sarebbero potute introdurre per «rendere l’opposizione più forte, non il governo più debole». Ainis si dice preoccupato perché «l’esperienza sa che l’uomo troppo potente diventa prepotente». Per i secondi, cito Angelo Panebianco che, sempre sullo stesso giornale, dice di credere che un governo senza opposizione finisca sull’inevitabile piano inclinato di diventare un “malgoverno”: «Alla democrazia conviene che esista un’opposizione credibile. Converrebbe anche a Renzi».
Renzi, con ogni evidenza, non è un costituzionalista e neppure un politologo. Però, è riuscito a rottamare non solo la “vecchia generazione” dei dirigenti inamovibili del proprio partito e conquistarlo, e già questa era sembrata a molti un’impresa titanica. La cosa più incredibile, la vera anomalia, sta nel fatto che abbia rottamato anche l’opposizione. L’anomalia cioè sta nel fatto che Renzi succeda a Berlusconi, senza avere mai battuto Berlusconi. Normale sarebbe stato – come accade e è sempre accaduto in politica – che un’era politica – e tale è stato il berlusconismo – venga battuta da un uomo, una proposta, un progetto alternativi. Invece, Renzi ha profittato del “vuoto della politica” costituito dalla messa in fuori gioco di Berlusconi, dalla successione di governi nominati dal presidente della Repubblica senza consenso elettorale, dalla “sospensione” del giudizio dei cittadini mai chiamati alle urne, scalando il proprio partito e da lì passando alla guida del governo. Col metodo cioè più vecchio del mondo, in Italia: lo Stato è il sistema dei partiti.
Anzi, con Berlusconi, in tempi non sospetti, ci andava a cena a Arcore, e con Berlusconi ci ha stretto un patto, che gli è servito tantissimo quando era necessario, e che ha lasciato cadere senza strapparsi i capelli quando non era più utile. E tutto alla luce del sole, niente patti della crostata, niente alicioccole e gamberetti a Gallipoli per preparare i ribaltoni, niente carte segrete dai notai. Così, il renzismo è diventato il successore del berlusconismo senza essere mai stato antiberlusconiano. Qualcosa che viene dopo, ma senza che via stata una cesura e neppure un’investitura. Non una successione naturale ma neppure un parricidio. Il renzismo si è definito sinora attraverso quello che non è, piuttosto che quello che è. La politica – le idee, le proposte, una visione, una progettualità – sembra diventata un orpello, in nome della rapidità e dell’efficacia. Del risultato. Una pratica spregiudicata alla luce del sole. L’unico agguato è stato quello su Prodi – i 101 che silurarono il Professore che già si sentiva sul Colle –, ma non poteva dare a Bersani, dopo la Boldrini e Grasso, cioè la presidenza della Camera e del Senato, anche la carica più alta, che in quel momento avrebbe potuto anche assegnare un incarico. Quella è stato l’unica notte dei lunghi coltelli, e da lì si è srotolato il resto.
Il resto è che siamo passati dopo la Prima e la Seconda repubblica, direttamente alla Quinta. Ricordate De Gaulle? In piena crisi per la questione algerina – e non è che fosse una cosa da poco, considerando gli attentati dell’Oas e i tentativi di colpo di Stato – e con un parlamento frammentato e bloccato, De Gaulle propose e ottenne che il presidente venisse eletto direttamente dai cittadini. E la cosa fu ribadita da un referendum, in cui stravinse. La repubblica parlamentare diventava una Repubblica presidenziale.
Renzi si sta cucendo addosso una riforma costituzionale che gli dia ampi poteri e lo faccia governare nel vuoto della politica, cioè erigendo a sistema l’occasione che gli ha consentito di arrivare al potere. La nostra Costituzione era tutta preoccupata di decentrare il potere – dopo il fascismo e un solo partito, un solo uomo al comando, sembrava doveroso. Un sistema forse anche farraginoso – quell’andare avanti e indietro tra Camera e Senato di ogni legge – ma che vincolava lo stesso partito che inequivocabilmente avrebbe governato, cioè la Democrazia cristiana dato che per i comunisti era precluso qualsiasi accesso alla stanza dei bottoni, a governare col bilancino. Decine di correnti dentro la Democrazia cristiana finirono con lo svolgere dentro il parlamento e l’attività legislativa la funzione dei partiti d’opposizione: decine di cavalli di razza ebbero modo e occasione di diventare presidenti del Consiglio e di imprimere, ogni volta, un segno alla politica e all’economia.
All’opposizione restava la piazza, cioè la protesta sociale, la lotta, l’occupazione delle terre, lo sciopero in fabbrica, le manifestazioni a oltranza. E dalla piazza – questo fu il “miracolo” del togliattismo – si riusciva a determinare l’attività di governo. A non farlo andare oltre, a non farlo diventare prepotente.
Un sistema costituzionale debole? L’Italia uscita stremata dalla guerra avviò una ricostruzione straordinaria, una modernizzazione sociale, un’alfabetizzazione, un miglioramento delle condizioni di vita quotidiana inimmaginabile. Eravamo una nazione “proletaria”, nelle parole di Mussolini, cioè con le pezze al culo: diventammo la sesta potenza del mondo industriale. E questo perché c’erano le lotte operaie e c’era il governo dei democristiani.
Tutto questo è storia, certo, e appartiene al passato. Il presente è l’assenza di opposizione sociale. La “costituzione materiale” del paese è infragilita: le comunità territoriali sono attraversate da contraddizioni laceranti gettate dalla crisi economica, i “corpi intermedi” sembrano afasici e incapaci di interpretare un ruolo di mediazione e promozione nel rapporto tra cittadini e istituzioni, la sfilacciatura delle grandi classi produttive ha lasciato un panorama frammentato, dove alcune lobby sono più forti di altre ma non interpretano un ruolo nazionale. Un paese indifferente, insieme rabbioso e caritatevole, capace di slanci generosi e insieme cinico, soprattutto avvilito. La “costituzione formale” segue, come le vettovaglie.
“Dentro” questa rassegnazione, arriva Renzi. È giovane, veloce, ambizioso, sa far di conto, sembra spinto da un vento inarrestabile. Non c’è Camusso che tenga, non c’è Landini che tenga, non c’è Bersani che tenga, non c’è Berlusconi che tenga, non c’è Grillo che tenga. Attorno Renzi c’è una sorta di suicidio collettivo: Bersani si suicida da sé incartocciandosi fino a mettersi da parte, Grillo si suicida da sé sprecando un potenziale di sostegno elettorale, Berlusconi si suicida da sé e ci va a fare un patto.
Renzi, come i monatti, mette i cadaveri sul carretto.
Ci siamo anche noi su quel carretto, noi cittadini, noi elettori. Un paese stremato. Ma questo non sembra preoccuparlo più di tanto. Potremmo sempre tornare a essere una nazione “proletaria”.

Nicotera, 30 aprile 2015

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