Esattamente cinquant’anni fa, a Roma, provarono a rappresentare in una cantina di via Belsiana la versione italiana della piéce Il Vicario, il testo del drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth scritto nel 1963. In quell’anno era stata rappresentata a Berlino e l’anno successivo a Londra. L’editore Feltrinelli l’aveva pubblicata proprio nel 1964. Ora, Carlo Cecchi la metteva in scena con la partecipazione di Gian Maria Volonté. Fu quasi un’azione clandestina, in pochi erano a conoscenza dell’evento e nessuna pubblicità era stata fatta. Durò solo un giorno. Il giorno dopo la polizia intervenne e fece chiudere il teatro per mancanza di un qualche certificato e nei giorni seguenti il Prefetto di Roma vietò lo spettacolo. Ci fu una protesta, uno sciopero della fame, gli universitari si prodigarono e la rappresentarono poi a Firenze in una chiesa sconsacrata. Questa era l’Italia della dolce vita. C’era un governo di centro-sinistra, certo.
Per raccontarla all’ingrosso, informato delle condizioni in cui i deportati ebrei erano sterminati nel campo di concentramento di Auschwitz, nella Polonia occupata dal Reich tedesco, un giovane gesuita implora Pio XII di assumere le difese degli ebrei perseguitati, di pronunciare una condanna esplicita e formale. Il papa non pronuncia le parole che il giovane gesuita attende, e così quest’ultimo si unisce a un convoglio di ebrei romani arrestati sotto le finestre del Papa; con loro è deportato a Auschwitz. Il Vicario presenta un papa ossessionato da quello che considera il pericolo peggiore per la Chiesa: il bolscevismo. Il nazionalsocialismo e Hitler non occupano lo stesso grado di ansietà. Dunque, pur detenendo il potere di bloccare le persecuzioni di cui gli ebrei sono vittime, il papa non solo non pronuncia questa parola di sua spontanea volontà, ma si rifiuta di farlo anche quando vi è caldamente esortato. Hochhuth è esplicito: «Un papa del genere è un criminale».
In realtà in principio c’era stato Camus. Quando nel natale del 1944 – gli Alleati sono già a Roma e vinceranno la guerra, ormai è chiaro – papa Pacelli pronuncia un discorso in cui per la prima volta accenna al male delle dittature e alla strada che dovranno intraprendere da ora in poi i cattolici, quella della democrazia, Camus sulla sua rivista Combat scrive: «Da anni aspettavamo che la massima autorità spirituale del nostro tempo si decidesse a condannare in termini espliciti i misfatti dei dittatori. Dico “in termini espliciti”. La condanna, infatti, può essere contenuta in una qualche enciclica, a patto però di riuscire a interpretarla. Poiché, nella circostanza, essa viene formulata nella lingua della tradizione, la quale non è mai risultata comprensibile alla gran parte dell’umanità. Ora, proprio la gran parte dell’umanità ha atteso per tutti questi anni che si levasse una voce per dire chiaramente, come oggi, dove stesse il male. Il nostro auspicio segreto era che la denuncia avvenisse nel momento stesso in cui il male trionfava e le forze del bene si trovavano imbavagliate».
Non meno tagliente di Camus era stato François Mauriac, che oltre a essere un grande scrittore, un coraggioso resistente e un convinto gollista, era un cattolico fervente e parlando del nazismo e della deportazione degli ebrei aveva scritto: «Un crimine di tanta ampiezza ricade in parte non indifferente su tutti i testimoni che hanno taciuto quali siano state le ragioni del loro silenzio».
Il testo di Hochhuth creò non poche polemiche e contrapposizioni. Si può immaginare quali nell’Italia di cinquant’anni fa.
Quarant’anni dopo Il Vicario, Hochhuth lavora con Costa Gravas sceneggiando un film più o meno sullo stesso soggetto. Il titolo è Amen e la copertina è di Oliviero Toscani: una croce che si allunga diventando una svastica. Il personaggio centrale è Kurt Gerstein, membro dell’Istituto d’Igiene delle Waffen-SS che rimane impressionato per ciò che vede ispezionando un campo di sterminio. Rimane ulteriormente scioccato quando apprende che il processo di depurazione dell’acqua dai parassiti che egli aveva ideato per le truppe che combattevano al fronte, processo che faceva uso dello Zyklon B, viene usato per sterminare i detenuti dei campi nelle camere a gas. Gerstein cerca di far sapere questi fatti a papa Pio XII, ma trova subito una forte chiusura da parte della gerarchia cattolica.
La questione dell’atteggiamento di Pio XII di fronte al nazismo e allo sterminio degli ebrei è con ogni evidenza fonte di contraddizioni esacerbate. E ce ne sono tutti i motivi, d’altronde. D’altra parte quando eventi storici entrano nella rappresentazione artistica sono obbligate certe grammatiche di semplificazione, di drammatizzazione. Un film, un testo teatrale non sono il lavoro di uno studioso, di un ricercatore storico. Però, come dire, c’è modo e modo, c’è drammaturgia e drammaturgia. Al film di Gravas rispose duramente padre Peter Gumpel, relatore per la causa di beatificazione di Pio XII: «Il film di Costa Gravas mette insieme i peggiori luoghi comuni emersi negli ultimi anni contro la Chiesa e contro papa Pio XII in particolare. Come è possibile che in nome della libertà artistica si possano diffondere calunnie con argomenti fasulli?
Senza alcuna seria documentazione storica Costa Gravas cerca di far passare un’interpretazione della realtà che è esattamente il contrario della verità. Ci sono centinaia di testimonianze da parte ebraica che provano come Papa Pio XII abbia fatto tutto il possibile per salvare gli ebrei». Bè, Costa Gravas forse non si era documentato a sufficienza, ma Hochhuth non aveva fatto altro per tutta la vita.
Tra il 31 ottobre e l’1 novembre del 2010, Rai 1 mandò in onda una miniserie di due puntate di cento minuti ciascuna, Sotto il cielo di Roma, coprodotta da Rai Fiction, Lux Vide e altri. Sullo sfondo del rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943, si intreccia la storia di tre giovani, Davide e Miriam, ebrei, e Marco, non ebreo che partecipa alla Resistenza. Qui, si vede Pio XII intrattenere colloqui con il generale tedesco Stahel, comandante militare di Roma e devoto credente, e, temendo il peggio, ospitare ebrei in conventi e seminari, cercando di limitare le vittime. Poi Stahel viene cacciato e arriva Wolff, delle SS. I conventi, dopo l’apertura ai rifugiati ebrei, si sono presto riempiti e alcuni prelati hanno manifestato la difficoltà di mantenere tutti per la mancanza di viveri; il papa dispone allora di aumentare le scorte e, in un criptico discorso radiofonico, di accogliere chiunque. Gli ebrei vengono così mimetizzati tra il clero. Il generale Wolff però non si ferma e rastrella pure le chiese, dopo il ghetto. Intanto, gli Alleati stanno arrivando, e Wolff incontra Pio XII in Vaticano per chiedergli di trattare con gli Alleati per conto della Germania, ma dopo il suo rifiuto si accorda per una ritirata senza spargimenti di sangue. Il 4 giugno gli Alleati entrano a Roma, che è finalmente libera. I due ragazzi ebrei si ritroveranno e si sposeranno, Marco, invece, è stato ucciso, dopo l’attentato di via Rasella. Pio XII esce tra la folla di Roma, che lo accoglie entusiasta.
Insomma, quanto Amen è iconoclasta, Sotto il cielo di Roma è agiografico. La fiction fu oggetto di forti critiche da parte degli storici e dei rappresentanti della Comunità ebraica romana. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, la definì «una patacca propagandistica». Di Segni esprimeva la preoccupazione che un prodotto culturale con un’impostazione storica «carente, piena di errori e imprecisioni», contribuisse a dare una lettura «assolutoria su scelte, vicende e silenzi del papato di Pio XII che sono ancora oggetto di studi e che attendono di essere vagliate alla luce dei documenti non ancora resi pubblici dagli archivi vaticani». Ettore Bernabei, gran cattolico e per decenni gran capo della Rai e, dopo, produttore della Lux Vide, si limitò a rispondere quanto gli premesse ricordare che la posizione di Pio XII fu quella di salvare a ogni costo Roma dalla guerra guerreggiata in città e che comunque si trattava «di una fiction, non di un documentario».
E adesso in anteprima mondiale è stato presentato in Vaticano Sfumature di verità, anzi Shades of Truth, della regista Liana Marabini. Nella locandina del film, si vede Pio XII che sul suo candido manto porta insieme alla croce la stella gialla che i nazisti imposero agli ebrei. Insomma, una rivisitazione dell’effetto Oliviero Toscani. Il film narra la storia di David Milano, giornalista ebreo-americano che dagli Stati Uniti approda in Italia, patria dei suoi genitori, per un’inchiesta dedicata a Pio XII. La figura del giornalista si ispira a Gary Krupp, ebreo newyorkese fondatore di Pave the Way, organizzazione per il dialogo tra le religioni, che ha sempre rivendicato l’aiuto offerto agli ebrei da Pio XII durante la Seconda guerra mondiale. All’inizio della sua inchiesta David Milano è di tutt’altro avviso. Finirà per ricredersi. La regista Marabini dice di essersi basata per questo lavoro su quasi circa centomila pagine di documenti e testimonianze poco note o inedite di ebrei sopravvissuti. «Gli ebrei che sono stati salvati da Pio XII dalla deportazione e dalla morte sono più di ottocentomila: è un numero impressionante». È sicuramente un dato impressionante. Forse troppo. Lei, comunque determinatissima, aggiunge: «Il film trasmette un messaggio non solo a quella parte dei nostri fratelli ebrei che accusano ingiustamente Pio XII. Ma anche a tanti cattolici che, influenzati dall’azione dei comunisti che lo hanno denigrato nella vita e dopo la morte, lo hanno condannato senza conoscere veramente la sua opera». Ce n’è per tutti, insomma.
Curiosamente, ma neanche troppo, data la serietà e il rigore della fonte, sia il giornale «Osservatore romano» sia «Pagine ebraiche» hanno stroncato il film. L’«Osservatore romano» ha messo un trafiletto sul film in una pagina campeggiata da una lunga critica sui Quaderni neri di Martin Heidegger, in cui tra l’altro si dice: «Cadde nella colpa di non aver compreso che Auschwitz è una rottura radicale nella storia dell’umanità». Del film, si scrive: «Non è certo con lavori come Shades of Truth che si aiuta la comprensione storica dell’operato di Pio XII e della sua Chiesa nei confronti del popolo ebraico durante la Seconda guerra mondiale. Perché quando i mezzi produttivi e artistici non sono all’altezza di un compito di tale spessore, allora è meglio rinunciare. Dal punto di vista del dossier storico siamo ai minimi termini, anche se qua e là filtrano ovviamente spiragli di verità, ma è nel tentativo francamente maldestro di dare forma drammaturgica al tutto che l’autrice rende il prodotto complessivo ingenuo e di conseguenza poco credibile».
E «Pagine ebraiche»: «Non esiste preparazione spirituale sufficiente a affrontare un’esperienza tanto catastrofica. Vicende drammatiche che hanno segnato indelebilmente i destini di milioni di persone sono degradate alla stregua di una goffa soap opera di dubbia qualità, infarcita di luoghi comuni e di fattoidi che non spostano di un capello quanto era già noto. Prima che cali il sipario appare sullo schermo un onirico Pio XII che sfoggia persino la stella gialla. La storia e le sofferenze vengono riaccomodate a piacimento, l’immaginazione galoppa».
Insomma, se l’intenzione era quella di conquistare un po’ di visibilità, allora va bene, l’effetto sembra riuscito.
Nicotera, 2 marzo 2015