Forse, per i parlamentari del Pd la soluzione migliore per la questione palestinese non sarebbe quella di due popoli e due Stati, come ormai, sin dagli accordi di Oslo anche gli israeliani sembrano convinti a fare propria almeno sul piano delle relazioni formali e diplomatiche internazionali. Piuttosto, forse, la soluzione migliore sarebbe quella di due popoli e tre Stati, o quattro o cinque, a seconda di quante siano le correnti del Pd.
Sia chiaro: nessuno può scandalizzarsi del fatto che le politiche nazionali e le divisioni interne alle coalizioni parlamentari e ai partiti abbiano un peso preponderante quando si discute di scenari internazionali. Molta della canea contro quanto è successo ieri alla Camera – con due mozioni approvate, e i sottili ma sostanziosi distinguo tra le due – ha un sapore di gazzarra per sparare contro il governo, per principio, per qualsiasi occasione, per pretesto. E se può essere sconsolante il barcamenarsi di una coalizione, che non intende strappare da una parte, che non intende allinearsi dall’altra, non è che sia granché decorosa – stiamo parlando di uno dei più seri e gravi conflitti di guerra, di uno dei più disastrosi scenari di vita per un’intera popolazione, di una delle più simboliche questioni per l’intero Medioriente – la sceneggiata che urla ai principi calpestati, agli accordi stracciati, alle giravolte. Stiamo parlando di cose un po’ più serie del correntismo piddino. «Io la mozione di Ncd non la voto e non la votano neppure molti parlamentari del Pd», aveva detto Stefano Fassina. «Voterò sì alla risoluzione del Pd sulla Palestina perché va bene. Non voterò di conseguenza né quella di Sel né quella di Ap», gli aveva fatto eco Pippo Civati. Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera, twitta: «Oggi è un bel giorno per il parlamento. #duepopoliduestati». Cristosanto.
Succede, insomma, che il Partito democratico presenta una mozione il cui testo impegna «il governo a continuare a sostenere in ogni sede l’obiettivo della Costituzione di uno Stato palestinese che conviva in pace, sicurezza e prosperità accanto allo stato d’Israele (…) entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa». I voti favorevoli sono stati 300 – tra cui quelli dei parlamentari di Sel –, 45 i contrari, 59 le astensioni. Succede che viene successivamente pure approvata un’altra mozione sul riconoscimento della Palestina presentata da Nuovo Centro Destra e Scelta civica. I voti favorevoli sono stati 237, i contrari 84, 64 le astensioni. Qui, il riconoscimento futuro della Palestina è subordinato al «raggiungimento di un’intesa politica tra il gruppo islamico Hamas e il suo antagonista laico Al-Fatah che, attraverso il riconoscimento dello Stato d’Israele e l’abbandono della violenza, determini le condizioni per il riconoscimento di uno Stato palestinese».
Sono dettagli, direte voi. E in parte è vero. Il dato politico è che anche il parlamento italiano ha votato perché il governo si adoperi sul piano internazionale per il riconoscimento di uno Stato palestinese. Punto. Però, è di dettagli che sono fatte le relazioni e gli accordi internazionali.
Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica di Roma, fa rilevare che nella “seconda mozione” approvata è stata «sottolineata la pericolosità di Hamas (..) Per volere la pace bisogna essere in due e la posizione di Hamas oggi risulta un ostacolo». Una cosa detta così – e certo Pacifici non è uno che dice le cose così – significa sconfessare tutta l’attuale politica di Abu Mazen e dell’Autorità palestinese, l’“intifada diplomatica” per cercare di frenare l’emorragia verso le posizioni più radicali e jihadiste. Chi sarebbero, a questo punto, gli interlocutori di Israele? Uguale il tono di una nota dell’Ambasciata israeliana: «Accogliamo positivamente la scelta del Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i palestinesi». La coperta è sempre troppo stretta.
La Palestina è riconosciuta da gran parte degli stati dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa orientale, quasi due terzi degli Stati membri delle Nazioni unite. Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui dice di sostenere in linea di principio uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Nell’autunno dello scorso anno, la Camera dei Comuni del Parlamento inglese ha approvato una mozione con cui chiedeva al governo di riconoscere lo Stato palestinese «per garantire una soluzione negoziata in Medio Oriente». Nello stesso periodo, la Svezia ha riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina, il parlamento di Madrid ha approvato all’unanimità una risoluzione per il riconoscimento e così il parlamento francese.
In Israele, le elezioni parlamentari si terranno a marzo, e anche questa campagna, come ormai da decenni, verte in buona misura sulla “questione palestinese”. Il movimento di opinione israeliano più democratico legge positivamente le decisioni dei parlamenti europei – l’appello all’Europa nasce da lì, e uno dei primi firmatari è lo scrittore David Grossmann, convinto sostenitore della pace – e considera il riconoscimento della Palestina un investimento sul futuro per Israele, per battere una politica fondata su una cultura militarista, che cavalca l’insicurezza e vende una illusione: quella di una pace a costo zero. La pace, la sicurezza, passa invece per un processo di riconoscimento, di rinuncia all’espansione, al controllo militare.
Tra pochi giorni, il premier Benjamin Netanyahu andrà negli Stati uniti e parlerà al Congresso. Non con Obama. Lo stesso John Kerry, del Dipartimento di stato, è sempre stato molto freddo. I repubblicani, no. I repubblicani adorano gli scenari di guerra permanente. È musica per le loro orecchie sentire Netanyahu che probabilmente rilancerà contro l’Iran, o che dirà come non ci sia differenza fra Hamas e l’Isis, e che Abu Mazen ha scelto di «governare con i terroristi sacrificando la pace».
Bisognerà aspettare marzo, certo, e cosa continuerà a accadere in Medio Oriente e in nord Africa. Bisognerebbe costruirla giorno per giorno la pace, mentre intanto continuano gli insediamenti e si moltiplicano i bandi per le gare d’appalto in Cisgiordania.
Nicotera, 27 febbraio 2015