«Un libro potrà uscire solo dall’unico grande gruppo, oppure da un gruppo medio, o da uno piccolo». Sembra una catalanata, le banalità di quel personaggio d’un programma di Renzo Arbore che diceva frasi tipo: «È meglio innamorarsi di una donna bella, intelligente e ricca anziché di un mostro, cretino e senza una lira», oppure: «Meglio vivere sani, ricchi e felici che malati, poveri e infelici». Invece è una considerazione di Stefano Bartezzaghi che è uno scrittore gentile e colto, intelligente e meticoloso. Per dire, commentando su «Repubblica» il ventilato acquisto della Rcs Libri da parte di Mondadori – che ha provocato l’accorato appello di quarantotto scrittori –, ricorda la fusione di quasi cinquant’anni fa tra Motta e Alemagna nel gruppo SME, che diventò per luogo comune l’«Alemotta», augurandosi che, per buon gusto, nessuno coni fra un po’ il marchio «Mondazzoli». Però, davvero, da dove altro potrebbe uscire mai un libro? O da un grande gruppo, oppure da uno medio, o da uno piccolo. È quello che succede già d’altronde.
Il settanta per cento del mercato editoriale è controllato esclusivamente da cinque o sei aziende. Le classifiche dei libri più venduti nel nostro paese sono la cartina al tornasole di questa situazione, testimoniando come nei dieci libri più venduti il rapporto sia in media di otto a due per i grandi gruppi editoriali. Solo il tredici percento dei titoli in commercio è pubblicato dai grandi gruppi, mentre i piccoli editori pubblicano il resto. Pubblicare una quantità di titoli non significa però conquistare le fette di mercato. Serve altro per conquistare il mercato.
Cinque imprese dominano il mercato editoriale italiano: Mondadori, RCS, G&MS, Giunti e Feltrinelli. Il vantaggio competitivo è conquistato attraverso acquisizioni delle imprese concorrenti, integrazioni verticali e conseguente controllo dei segmenti strategici dell’intera filiera editoriale. Il controllo del settore da parte di questi gruppi sembra totale: possiedono gli strumenti di produzione e i veicoli di promozione, le reti di distribuzione – è di un paio di mesi fa l’ok dell’Antitrust all’alleanza strategica tra Pde-Feltrinelli e Messaggerie – e i canali di vendita, rendendo agli editori indipendenti particolarmente difficile fare a meno dei loro servizi o sottrarsi alla loro influenza. La logica commerciale che regola il funzionamento della catena del libro è dunque già nelle mani dei grandi gruppi.
Le logiche di produzione sono sempre più orientate dai processi di finanziarizzazione: i titoli in commercio aumentano, la tiratura media diminuisce insieme ai processi qualitativi di selezione e i libri escono dal mercato velocemente, al pari di qualsiasi altro prodotto.
Le librerie di catena dei grandi marchi editoriali sono il canale principale di vendita, con una quota di mercato del 41,8 per cento, cui seguono librerie indipendenti, Grande distribuzione e librerie online con quote di mercato rispettivamente del 36, del 16,5 e del 5,5 per cento. Qualche anno fa, le quote di mercato erano rispettivamente del 43,3 per cento per le librerie indipendenti e del 36 per le librerie di catena. Come si vede, il dato si è invertito a vantaggio delle librerie di catena e tende a crescere sempre di più.
Per quel che riguarda il settore online, la crescita in termini di vendita ha fatto registrare un più 25 per cento: è certamente il canale con la percentuale di crescita più alta e con le potenzialità di sviluppo maggiore. Ma le principali librerie online italiane fanno riferimento ai grandi gruppi editoriali: Messaggerie Italiane e Gruppo Giunti (ibs.it), Mondadori (bol.it) e Effe 2005 (la Feltrinelli.it). Anche le librerie online fanno parte di quel grande piano di integrazione che le grandi aziende editoriali stanno portando avanti negli ultimi anni: dal 2008 a oggi le librerie indipendenti sono le uniche a perdere punti percentuali sulle vendite.
Stefano Mauri, presidente, e amministratore delegato del gruppo GeMS, commenta così l’operazione di concentrazione editoriale che si profila: «Se sono preoccupato? Si vedrà. Come editore diventerei il secondo e quindi sarei l’alternativa a un gruppo mastodontico. Ricordo che, quando ho cominciato, Mondadori era dieci volte più grande dell’allora gruppo Longanesi che aveva il 2,5 percento di quota e Rcs probabilmente era sei volte più grande». Come dire: è sempre andata così.
Lo scandalo denunciato dai quarantotto firmatari dell’appello «Questo matrimonio non s’ha da fare», autori Bompiani per lo più, ovvero RCS Libri, ma non solo – benché non si capisce bene che c’azzecchino pur illustrissime figure come Toni Servillo e Franco Battiato – parla di un processo che è già in corso da un pezzo. Per carità, quanti più se ne accorgono, meglio è. Però, non è che prima della eventuale operazione Mondadori-RCS Libri ci fosse la libertà d’autore e dopo ci sarà una «pericolosa concentrazione», come pure dice (come autore Bompiani o come politico?) il ministro Franceschini. La loro libertà d’autore era garantita da che? Il mercato editoriale italiano era tutto un pullulare di libertà e dopo non lo sarà più? Suvvia.
Buttarla in politica non serve: non serve che qualcuno ventili l’editore della Nazione contro il partito della Nazione (a seconda: se riparte il patto del Nazareno, altro che), né che qualcuno parli di una sorta di tic coattivo che serpeggia “a sinistra” ogni volta che si sente odor di Berlusconi. Marina sarebbe quella che spinge con più convinzione, ma se è vero che RCS Libri ha un buco di oltre mezzo miliardo a cosa potrebbe servire una liquidità di circa centocinquanta milioni, considerando che, a sua volta, Mondadori ha un buco di almeno un paio di centinaia di milioni? Basterebbe, dal punto di vista del mercato editoriale, cioè del valore reale, il fatto che insieme i due gruppi possederebbero il settanta per cento circa del tascabile e il venticinque dello scolastico? Non credo.
Credo piuttosto che questa sia una pura e semplice operazione di finanziarizzazione. E che non c’entri nulla la filiera logistica dei risparmi in scala, insomma, l’aspetto “industriale”. E che anche un lieve paragone con l’accorpamento tra Penguin e Random House del mondo anglosassone sia blasfemo.
Qui si parla di piccioli. Non di libri. La liquidità di casa Berlusconi dopo la vendita delle azioni di MediaGroup, con un ricavato di circa trecentocinquanta-quattrocento milioni, ha “bisogno” di essere reinvestita in parte. È solo dal punto di vista finanziario che questa operazione potrebbe avere un “senso”. I libri, e la libertà d’autore, c’entrano davvero poco.
Con buona pace dei nostri «bravi».
Nicotera, 21 febbraio 2015
L’ha ribloggato su Il blog di Michele Valente.