Il piano era questo: sarebbero arrivati in quattro, portandosi dietro pistole e fucili. Come potessero far passare i fucili dentro è un mistero. Certo, è febbraio, e l’inverno di Manhattan è proprio inverno. Porti i cappotti lunghi e stai imbottito. Però, la sicurezza non dorme, non dovrebbe dormire. Lo sanno tutti che c’è un casino di gente là fuori che lo vorrebbe vedere morto. E forse ce n’è qualcuno pure là dentro. Qualcuno gliel’ha pure detto. Ma lui ha dato ordine ai suoi uomini della sicurezza di non perquisire nessuno, e di tenere lontano i giornalisti.
Il piano comunque prevedeva che a un certo punto uno dei quattro avrebbe creato un diversivo. E nel casino, gli altri tre si sarebbero messi a sparare. Cioè, avrebbero sparato tutti e tre verso lo stesso bersaglio. Il bersaglio era unico. Per un sacco di gente. Il bersaglio era Malcom X.
Settimo di undici figli, Malcolm X nasce Malcolm Little, il 19 maggio 1925 a Omaha, nel Nebraska. Suo padre, Earl, era un pastore battista che aveva lasciato la Georgia per il Nord. Aveva aderito all’Universal Negro Improvement Association, il movimento panafricanista di liberazione dei neri, fondato nel 1914 dal politico giamaicano Marcus Garvey. A Earl Little piaceva far conoscere le idee di Garvey e così gli spostamenti della famiglia erano frequenti: Filadelfia, Milwaukee, il Michigan. Forse fu dovuto a una “predicazione” dove non avrebbe dovuto razzolare, la sua morte nel 1931, “al di là delle rotaie”, dove si trovavano i quartieri segregati dei neri. Qualcuno sospettò la Legione Nera, che era il corrispettivo del Ku Klux Klan del Sud e operava nel MIdwest, composta da immigrati italiani e slavi per lo più e vestiva di nero per ricordare i fascisti e colpiva soprattutto comunisti e socialisti. Non ci fu mai alcuna indagine per scoprire i colpevoli, dissero che era stato un suicidio. A chi poteva interessare l’assassinio di un nero miserabile e sognatore? Sono gli anni della Grande Depressione.
Il 1931 è anche l’anno della crisi del movimento di Garvey: c’era stata una scissione capeggiata da Elijah Poole, operaio nero, immigrato dalla Georgia e licenziato dalla Chevrolet di Detroit. Poole aveva iniziato a frequentare il Tempio islamico di Detroit, dove predicava un certo W.D. Fard, un venditore ambulante, che però aveva messo assieme venticinquemila fedeli. Una cifra enorme, ma le fabbriche automobilistiche hanno richiamato le masse nere del Sud. E ora c’è la crisi. Quando Fard andò via da Detroit, Poole divenne il suo erede. Ora era lui il Ministro supremo della Nazione dell’Islam – The Nation of Islam. Da ora in poi, il suo nome sarà Elijah Muhammad. La dottrina di Elijah Muhammad è facile facile: denuncia il razzismo della religione cristiana, e predica che gli uomini di colore stati i primi sulla Terra e privati del loro poteri e oppressi dai bianchi, creati da uno scienziato chiamato Yakub. La Nazione dell’Islam vuole la completa separazione dalla società bianca, che le persone di colore imparino a sviluppare una propria indipendenza economica, necessaria prima del ritorno in Africa, religiosa e nazionale. Sono condannati il bere e il gioco d’azzardo, la droga, il tabacco, i cibi impuri e ogni forma di vizio.
Malcom, dopo la perdita della madre, viene prima affidato a amici e poi espulso dalla scuola per “cattiva condotta e comportamento antisociale” e spedito nella casa di correzione di Lansing, Michigan. Studia, e si mostra brillante. Ma non è quella la sua strada. A sedici anni, va a stabilirsi a Roxbury, il ghetto nero di Boston. Qui lavora come lustrascarpe e in seguito come inserviente nei ristoranti e sui treni della costa orientale. È grazie ai treni che Malcom scopre New York. Riesce a non andare in guerra – intanto Elijah Muhammad è finito in galera per avere predicato la diserzione – e si piazza a Harlem, dove entra nel giro delle scommesse clandestine, dello spaccio e della prostituzione.
Alla fine della guerra, torna a Boston, dove viene arrestato per una rapina e condannato a dieci anni di carcere. È qui, in carcere, che incontra la NOI, la Nation of the Islam, attraverso il fratello Reginald, Dal 1946 al 1952, alla Norfolk Prison Colony del Massachusetts, si converte all’islam, abbandona il fumo e il gioco d’azzardo, studia la storia degli afroamericani e insieme Erodoto, Kant, Nietzsche. È qui che comincia a mescolare pezzi della sua vita: il bandito vendicatore degli oppressi e il predicatore che salva le loro anime. Malcom inizia a fare proselitismo in carcere, il che convince le autorità della prigione che sia meglio liberarlo che trovarselo tra i piedi.
Trova lavoro come commesso, si stabilisce a Inkster, ghetto nero di Detroit, e prende la decisione di cambiare il cognome in “X”, a perenne ricordo della privazione del suo vero nome africano, insomma del suo tempo di schiavo. È il discepolo più fervido di Elijah Muhammad. Lui sa parlare ai giovani e nei grandi ghetti urbani. La sua stessa vita è una predicazione. Nel 1954 diventa ministro del Tempio n. 7 di New York. Apre e organizza nuove moschee sulla costa orientale e trasforma la Nazione dell’Islam in un dinamico gruppo politico-religioso di “musulmani di colore, separatisti e rigidamente organizzati”. Con il suo fervore e la sua spinta, la Nation arriva a contare cinquecentomila iscritti. Comincia la sua notorietà sui mass-media, che lo seguono con interesse. Lui stesso diventa abile con i mass-media. Comincia anche l’interesse, preoccupato, delle Agenzie federali, l’Fbi soprattutto. Nel 1958 Malcolm si sposa con una compagna del suo movimento, Betty Shabazz, e si stabilisce a New York.
È qui, all’inizio degli anni Sessanta, che avviene la rottura con Elijah Muhammad. Malcolm non accetta più l’idea di Elijah di tenere i neri estranei alla politica, in attesa di un futuro Stato indipendente da ritagliare all’interno degli Stati Uniti. Fonda con un gruppo di seguaci l’Organizzazione dell’Unità Afroamericana, movimento politico che non rinnega le origini religiose. Viaggia in Europa, in Medio Oriente e in Africa, per incontrare i governi non allineati. Si muove su due linee di azione politica: una più stretta intesa con i gruppi antisegregazionisti operanti nel Sud e nel resto del paese; e il tentativo, sempre più sentito, di internazionalizzare il problema dei neri, cercando intese con paesi arabi, soprattutto africani, e ex-colonie, per creare un fronte e un’azione comuni, una prospettiva panafricana e internazionalista.
Le sue critiche contro il governo degli Stati Uniti, in politica interna e estera, diventano sempre più forti. Attacca Kennedy. Trova il tempo per scrivere una Autobiografia. O meglio, trova il tempo per parlare con il giornalista Alex Haley, per la sua Autobiografia. Haley è in quel momento un perfetto sconosciuto, ma diventerà famoso non solo per questo libro ma a livello planetario, molto più avanti, per Radici. È un nero repubblicano, contrario a ogni idea di separatismo. Raccoglierà gli appunti di Malcom quasi a voler dimostrare a quali paradossi possa portare la politica della segregazione razziale.
Malcolm è ormai quasi leggendario, simbolo dell’America nera urbana, della sua indignazione contro il razzismo strutturale della società. Riprende da Marcus Garvey l’impegno per la costruzione di autorevoli istituzioni nere e con Martin Luther King Jr. – con cui aveva rotto anche duramente – l’impegno per la pace e la libertà delle minoranze razziali. Attacca a voce alta il ruolo degli Stati Uniti nel sudest asiatico, e si oppone fin da subito alla guerra del Vietnam. Molti uomini e donne hanno lasciato la Nazione dell’Islam per seguire Malcolm. E questo non gli crea grande simpatia intorno. Né l’abiura del sessismo patriarcale – era stato su questo, d’altronde, la sua denuncia contro Elijah Muhammad, per avere abusato di alcune segretarie dell’organizzazione, una cosa che poi, dopo la morte, seguirà anche il fantasma di Luther King – promuovendo le donne nella leadership della Organizzazione dell’Unità Afroamericana. Ma ai fratelli neri questa cosa proprio non gli va giù.
«È il tempo dei martiri e io sarò uno di loro, per la causa della fratellanza: l’unica cosa che può salvare la nazione». Questa frase profetica viene pronunciata da Malcolm X due giorni prima di salire sul palco della sala da ballo Audubon. Ha solo trentanove anni. Una settimana prima una bomba incendiaria gli ha distrutto la casa, e a stento si salva con la moglie e le figlie.
È il 21 febbraio 1965. Malcom terrà una conferenza alla Audubon Ballroom di Washington Heights, Manhattan, New York.
È qua che entra in azione il piano dei quattro.
Malcom è appena salito sul palco e ha detto poche parole di ringraziamento. Scoppia un diverbio, poi una rissa. Qualcuno grida di togliere le mani dalle sue tasche, che gli hanno rubato il portafoglio. Gli uomini della sicurezza fanno per avvicinarsi, provano a mettere calma. Malcom ha appena il tempo di dire – lasciate stare, non è niente. In tre si alzano dai primi posti – erano arrivati presto, con fucili e pistole – e cominciano a tirargli addosso. Quindici proiettili lo colpiscono. Quindici. Tre sono mortali.
Qualche anno fa, dopo quarantaquattro anni, era stato finalmente rimesso in libertà uno degli uomini che quel giorno spararono. Lo beccarono subito, anche perché era stato ferito dalla sicurezza. Si chiamava Talmadge Hayer, alias Thomas Hagan. Era uscito sulla parola dopo più di vent’anni, ma restava sempre sotto sorveglianza. Altri due, che vennero presi più tardi – Muhammad Abdul Aziz alias Norman 3X Butler e Khalil Islam alias Thomas 15X Johnson – vennero condannati anche loro all’ergastolo, ma anche loro scarcerati (Islam nel 1987 e Aziz due anni prima). Hayer alias Hagan aveva sempre detto che fossero innocenti, e che altri, di cui non voler mai dire il nome, erano con lui quel 21 febbraio. Al processo Hayer disse che aveva voluto punire Malcom X perché era un “traditore”, che era stata la teoria diffusa da Elijah Muhammad e da Louis Farrakhan, prima discepolo di Malcom e poi suo antagonista, per motivare i continui attacchi contro di lui, sia per le denunce sessuali, che avevano creato un putiferio e gettato discredito, sia per la sua conversione all’islam sunnita. Negli anni Hagan ha dichiarato «I have deep regrets about my participation in that» – ho grande rimorso per la mia partecipazione alla cosa. E anche: «I don’t think it should ever have happened» – penso che non sarebbe mai dovuto succedere.
Il biografo più importante di Malcom X, Manning Marable, si dice convinto che Norman Butler e Robert Johnson, gli altri due condannati con Hagan, non c’entrino niente. Che i veri assassini di Malcolm X non siano stati né individuati, né condannati.
Secondo Marable il primo a beneficiare dell’intrigo mortale fu il dipartimento di polizia di New York e la sua sezione politica, il Boss (Bureau of special services), un ufficio che aveva infiltrati sia nell’organizzazione di Malcolm sia nella Nazione dell’islam. Anche l’Fbi era interessata all’eliminazione di Malcolm: uno dei responsabili della sicurezza di Malcolm X era un poliziotto sotto copertura, e secondo il procuratore distrettuale all’Audubon Ballroom c’erano almeno altri tre poliziotti in incognito. Anche la Nazione dell’islam non vedeva l’ora di toglierselo dai piedi, Malcom X. Nel corso degli anni, più volte, Louis Farrakhan ha lasciato intendere che un qualche suo coinvolgimento fosse possibile. Farrakhan è un gran istrione e un manipolatore. È lui che, comunque, qualche anno fa riuscì a portare in piazza un milione di neri, la Million Man March, tutti rigorosamente maschi – dal palco, però, parlò una delle figlie di Malcom, dopo che aveva tentato di ammazzarlo qualche tempo prima.
Furono in tanti a sparargli addosso, quel giorno. «È il tempo dei martiri e io sarò uno di loro, per la causa della fratellanza: l’unica cosa che può salvare la nazione». 21 febbraio 1965. Cinquant’anni fa.
La battaglia dei neri d’America ha fatto dei progressi straordinari. C’è un presidente di colore, oggi. E pure le strade di Ferguson, Missouri, incendiate, come quelle di altre città degli Stati uniti, ogni volta che un nero muore ucciso da un poliziotto bianco, o per motivi razziali. La battaglia dei neri d’America continua. Anche grazie alla storia di Malcom X.
Our black shining prince – Il nostro scintillante principe nero. Così, nell’orazione funebre, lo definì Ossie Davis, il grandissimo attore, regista, e attivista dei diritti civili.
Nicotera, 20 febbraio 2015