Mons Martinelli, che a Tripoli aspetta il Califfo

Di certo, troverà conforto nelle parole di sant’Agostino, monsignor Martinelli, in questi giorni. Chiuso lì, a Tripoli, nel vicariato, con altri quattro preti e cinque suore, aspettando gli incappucciati del Califfato. Del resto, fu durante un assedio d’altri barbari, i Vandali, forse – o erano i Visigoti? – che dalle brume del nord Europa erano scesi giù dalla Spagna a conquistare l’Africa, e il mondo, che il gran dottore della Chiesa, Agostino, morì a Ippona, oggi Algeria, allora Numidia. Diciotto mesi d’assedio. Vinsero gli ariani – la Storia girava con loro, allora – e distrussero ogni traccia del cattolicesimo. La Storia è un tiramolla. Fa avanti e indietro. Si allunga allunga allunga e poi ritorna lì dov’era. A volte, ti viene da pensare che stai fermo sempre allo stesso punto.
Di certo, troverà conforto nelle Confessioni di Agostino, padre Martinelli. Lì dove si dice che il male non esiste, che è solo assenza del bene, assenza di Dio. Distrazione, forse. Si è distratto Dio ultimamente? Sembrerebbe proprio di sì. Siamo entrati nel Terzo millennio, ma certi giorni ti viene da credere che stai all’età della pietra.
Deve sentirlo ben vicino Dio, monsignor Martinelli. Anche la Storia deve sentire vicina. Quel tiramolla. Che glielo dici a fare? È nato da quelle parti, da italiani emigrati, poi è tornato in Italia, poi è tornato in Libia e non se n’è andato più. Se non fosse peccato di vanità – e monsignor Martinelli non ne sembra affetto, lui che dice che non telefona a Roma perché non ama mettersi in mostra –, sembrerebbe il percorso di vita di Agostino, avanti e indietro tra l’Africa e l’Italia.
Perché bisogna averla nel sangue l’Africa, bisogna proprio amarla la Libia, per restarci. «Al di là della fede, dice Martinelli, c’è l’amicizia. La Libia va incontrata». Incontrata. Qualcuno potrebbe spiegarglielo – tra una gola tagliata e l’altra – a quegli incappucciati del Califfo? La Libia va amata, non conquistata. Già, che te lo dico a fare? Noi italiani non l’amammo la Libia, la stuprammo.
Rimane lì, monsignor Martinelli, l’ultimo italiano a tenere sulle spalle il peso della Storia, di quella nostra dico, d’Italia. È la nostra bandierina ancora piantata lì, ci pensate? Non quelli del petrolio. Quelli, sono andati via tutti – su raccomandazione della Farnesina –, e già erano volate via tutte le altre ambasciate e sedi consolari. Lui è rimasto. Perché ha i suoi fedeli – filippini. Sono quelli che facevano i servizi, nelle case dei ricchi libici. I libici non fanno i servizi. Come i qatariani, come i sauditi, come quelli del Bahrein. Chiamano i filippini. Gli infedeli cattolici a fare loro i servizi. Gli arabi non fanno i servizi. Gli arabi fanno la guerra, la jihad. È la loro natura.
Sembra che pure noi si voglia far la guerra. Sarà anche la nostra natura?
Chissà quale risentimento nei libici potrebbe mai aver provocato monsignor Martinelli. Eppure lo hanno minacciato di morte. Forse sono andati fin dentro la sua chiesa a dirglielo, che gli taglieranno la gola. Sta succedendo dappertutto in Africa. Sopra e sotto il Sahara. Ieri l’altro hanno ammazzato ventuno copti, cristiani cioè, forse più cristiani dei cristiani. Perché sono cristiani. Ne hanno ammazzato anche in Egitto, mica no. Forse si fanno la gara a chi ne ammazza di più, di cristiani. I Boko Haram, i Fratelli musulmani, i tagliagole del Califfo. Tutto il risentimento della Storia. La Storia è impastata di risentimento. E la Storia sembra voler girare di nuovo dalla parte dei barbari. È così che vanno le cose del mondo.
«Ego christianus sum. Ducite me ad dominum uestrum». Così Jacopo di Vitry riporta nella sua Historia Occidentalis l’incontro tra san Francesco – uirum simplicem et illitteratum, dilectum deo et hominibus, uomo semplice e senza cultura, diletto a Dio e agli uomini – e il sultano di Damietta, Malik-al-Kamil, avvenuto nel settembre 1219. Predicò tre giorni, Francesco, come aveva predicato agli uccelli e al sole e al vento, e temendo che finisse con il convertire qualcuno del suoi, il sultano lo licenziò non senza prima avergli raccomandato di pregare per lui, «perché Dio si compiaccia di rivelarmi quella legge e quella fede che più gli piace».
Forse, invece, monsignor Martinelli questa telefonata a papa Francesco dovrebbe proprio fargliela.
E dovrebbe andare Francesco, nel campo dei Saraceni – in Iraq o in Siria, lì dov’è il Califfato dell’Orrore, o a Derna, nella stessa Libia – e predicare per tre giorni e tre notti. Sì, lo so, che me lo dite a fare? Al-Baghdadi non è il sultano di Damietta. Però, se la Storia fa tiramolla, chissà che anche Dio non faccia tiramolla.
E magari succede un altro miracolo, e arriva la pace tra cristiani e musulmani.
Telefoni, vescovo, telefoni, glielo racconti a Francesco cosa vuol dire sentirsi la lama alla gola. Non è per la paura. Voi ci siete abituati al martirio. È per tutti noi, noi senza fede, noi senza patria, noi senza Dio. Dovete salvare noi dalla paura.

Nicotera, 17 febbraio 2015

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