Quella sottile linea rossa che separa il combattente dal macellaio

Negli orrori della guerra, di qualunque guerra, l’ultimo bagliore di un residuo di umanità – della consapevolezza, cioè, che prima o poi quella guerra finirà, che verrà un tempo della pace – è il trattamento dei prigionieri. Quanto più continua a essere considerata sacra la vita del prigioniero, sottratta alla guerra mentre ancora infuria la guerra, sospesa tra il tempo di pace che c’era prima e il tempo della pace – di una qualunque pace – che ci sarà dopo, quanto più la sua umanità rimane curata e assistita, un valore intangibile, tanto più l’umanità di chi combatte qualunque guerra rimane un’invincibile resistenza. Quel prigioniero è la nostra salvezza, di noi che combattiamo: se lui è perduto, siamo perduti noi. Nella guerra, in qualunque guerra c’è il furore del combattimento. Il combattimento non prevede troppe filosofie dell’essere, troppe ontologie del vivere. Ci si batte per vincere e per non morire. L’alternativa è secca: perdere e morire. Ma quando il combattimento è sospeso, quando la battaglia è finita e numerose battaglie ancora ci aspettano, l’alternativa non sta in chi dovrà combattere, ma nel prigioniero che noi custodiamo: se lui vive noi non perderemo. La sottile linea rossa tra il combattente e il macellaio sta nella vita del prigioniero. C’è chi manifesta orrore per il referendum online che l’Is ha lanciato su quale fine dovesse avere il prigioniero pilota giordano, poi arso vivo. Ci si è dimenticati che le Brigate rosse fecero un analogo referendum – in un “rituale” di democrazia di base – tra i loro militanti e i detenuti loro affiliati, quando fu chiaro che non ci sarebbe stata trattativa per Aldo Moro. Il voto fu schiacciante: uccidere Moro. Solo pochi, pochissimi se ne ritrassero. I saracini e i turchi razziavano uomini per chiederne riscatto. Quelli che almeno valevano un prezzo, gli altri finivano schiavi su qualche nave. La Repubblica Serenissima aveva un apposito Uffizio destinato a questo. Al riscatto. La chiesa invece cercava donazioni per salvare i più poveri, aveva un’apposita Congregazione per questo. Avevi un prezzo comunque, alto o minimo che fosse. Quando il furore ideologico, o religioso, sostituisce il combattimento, la guerra delle armi, ogni cosa è ostile, ogni cosa è nemica, ogni uomo è spregevole. È indegno. Non degno di vivere. Immondo. Sia in armi o nelle nostre mani, combattente o prigioniero, la sua vita è meno di zero. Non vale nulla. La mia stessa vita non vale nulla. Il disprezzo del nemico è lo stesso disprezzo per la mia vita. E non si può apprezzare un prigioniero, non si può dargli un prezzo, se la mia vita non ne ha alcuno. Il coraggio del combattente non è solo il disprezzo del pericolo, ma l’apprezzamento del prigioniero. Non c’entrano qui le civiltà, non c’entrano qui le ideologie. La Repubblica spagnola uccise nel 1939, quando ormai tutto era perduto, più di mille prigionieri franchisti nel carcere Modelo. I giapponesi sistematicamente sfinivano a morte i loro prigionieri – chi non ha odiato il colonnello Saito del Ponte sul fiume Kwai? E chi non ha avuto voglia di prendere la pistola e puntarsela alla testa in quella odiosa roulette russa del Cacciatore in Vietnam? Chi non ha provato orrore per gli “esperimenti” nazisti sui prigionieri ebrei? Chi non si è battuto contro Guantanamo? Non c’entrano le religioni. Noè separò i mondi dagli immondi, i puri dagli impuri, quelli da mangiare e quelli da salvare nell’Arca. Erano tutti prigionieri della collera divina. Poi, dopo centocinquanta giorni di diluvio, Dio li salvò tutti sul monte Ararat. Nell’Antico Testamento è scritto: «bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Esodo, 25). È la legge dei tempi della pace, le norme per vivere insieme. Non è la parola della guerra. Solo considerando mondo, puro, il mio prigioniero salverò il valore del mio combattimento. Aspettando che arrivino i giorni in cui le armi si deporranno. Quando spazzeremo via i macellai e i nostri prigionieri torneranno a casa. Messina, 4 febbraio 2015

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