Si era alzato molto presto, quella domenica, monsignor Romero, per mettersi in prima fila. Il papa sarebbe sceso nel grande salone, dopo la messa, per la la tradizionale udienza generale. Forse stavolta ce l’avrebbe fatta a parlargli. Aveva già provato con Paolo VI, nel 1978, ma si era trovato davanti un muro di diffidenza. Forse sarebbe andata meglio con quello nuovo, il polacco.
È il febbraio del 1980. Le omelie di mons. Romero ormai fanno il giro del mondo. Le sue accuse contro il governo salvadoregno sono sempre più dure. Le sue parole sono sempre più seguite, lo amano i poveri, i contadini. Lo odiano i militari, la destra reazionaria, gli anticomunisti. L’anno prima, il suo nome è stato fatto come candidato per il Nobel della pace. L’università di Lovanio lo ha diplomato honoris causa per il suo impegno dalla parte dei poveri. Romero viene in Europa. Viene a ritirare la laurea all’università di Lovanio. Ma il suo obiettivo è arrivare a Roma e parlare col papa. Il papa è Giovanni Paolo II, papa Wojtyla. È papa da poco più di un anno. A Roma Romero c’era stato a lungo, a partire dal 1937, a vent’anni, dopo il seminario per proseguire gli studi. Qui era stato ordinato sacerdote. Perciò, conosce la Curia romana. Sono passati più di quarant’anni, ma la Curia romana è la stessa da millenni e sarà la stessa per i millenni a venire. Lui non è molto amato qui. E dire che invece lo hanno nominato vescovo perché è un conservatore, un tradizionalista, uno dell’Opus Dei, al posto di tutte quelle teste calde di gesuiti con la loro teologia della liberazione e la guerriglia dei campesinos. Quando lo hanno nominato vescovo a El Salvador i più insoddisfatti erano proprio loro, i preti di strada, i preti della teologia della liberazione. Che ci avrebbero fatto con quest’uomo che voleva solo pregare e pregare e pregare? Il gesuita salvadoregno Salvador Carranza, racconta: «Quando lo elessero come nuovo arcivescovo, elessero quello che probabilmente rappresentava la parte più conservatrice. L’esercito e i giornali de El Salvador si rallegrarono e così anche Roma. Dicevano: ‘Abbiamo eletto qualcuno che sta dalla nostra parte’». Gli fa eco un altro gesuita Rodolfo Cardenal: «È chiaro che noi non eravamo contenti della sua nomina. Fu il primo a accusarci pubblicamente di marxismo per l’organizzazione del nostro clero e le nostre convinzioni. Attaccava la nostra stessa teologia della liberazione». Le cose poi cambiarono. Romero stesso parlò di “conversione”, di illuminazione. Accadde quando le squadre della morte ammazzarono come un cane il gesuita Rutilio Grande, insieme a altri due uomini. Il gesuita aveva fatto della sua vita una missione in aiuto dei poveri, soprattutto attraverso la creazione dei gruppi di auto-aiuto dei campesinos. Da questo momento – è il 1977 – Romero vede chiaramente le ingiustizie, le repressioni, le torture, gli omicidi e inizia la sua azione di denuncia che pagherà poi con la morte. La domenica, nella Basilica di santa Marta, c’è moltissima gente: è venuta da diverse parti del Paese per assistere al funerale di Rutilio Grande. Nella sua omelia Romero parla chiaramente delle responsabilità dello Stato e del potere giuridico, nonché delle ingiustizie subite dal popolo salvadoregno. È un altro uomo, è un altro vescovo. Il gesuita Salvador Carranza racconta: «In quella messa di fronte ai cadaveri Romero era molto commosso; da quel momento ci rendemmo conto giorno dopo giorno che ci trovavamo di fronte a un Romero nuovo che iniziava a parlar chiaro». È per questo che è venuto a Roma, per parlar chiaro, per chiedere aiuto.
A Roma, lo hanno menato di qua e di là, i curiali, e deve aspettare il suo turno, e non si trova la richiesta di udienza – Sa, le poste italiane. Ma io l’ho portata a mano –, e porti pazienza. A Roma comandano loro, puoi essere pure l’arcivescovo di Marte o di Saturno, a Roma comandano i curiali. Finché non si è alzato di mattina presto e spera in un colpo di mano.
Giovanni Paolo II arriva. Saluta i numerosi presenti. Passa davanti Romero. Lui gli acchiappa le mani: la prego, Santità, mi dia udienza. Sarà per l’indomani. Ce l’ha fatta.
L’indomani, Romero porta con sé tutta la documentazione che ha messo assieme. Quando il papa lo riceve gli parla dei misfatti del governo, degli assassinii, delle stragi, dei preti uccisi e sfigurati. Ha con sé delle foto, gliele mostra. Il polacco non sembra molto scosso. Tutto quello che dirà sarà più o meno questo: «Lei, signor arcivescovo, deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese. Un’armonia tra lei e il governo salvadoregno sarebbe la cosa più cristiana in questi momenti di crisi». Sono più o meno le stesse parole che Romero si sente ripetere al suo paese dalle autorità ecclesiali. Forse queste avranno informato Wojtyla. O forse Wojtyla la pensa proprio come loro. Tornerà a mani vuote, Romero, il polacco da quell’orecchio non ci sente. Se ci sono di mezzo comunisti, veri o presunti, il polacco tira dritto. Tornerà a El Salvador e pochi mesi dopo quell’incontro verrà ucciso. Wojtyla non andrà al funerale e manderà un vescovo messicano. Solo anni più tardi renderà omaggio alla sua tomba.
Tanti anni dopo, nel 2002, quando le parole di Wojtyla ormai sono diventate di sale, lente e distillate, il papa polacco dirà: «È un martire, Romero è un martire». O almeno così capiscono quelli che gli stanno vicino – dei vescovi centramericani – che subito fanno rimbombare la notizia nelle stanze curiali. L’ha detto il polacco. Romero è un martire. La notizia arriva fino a Ratzinger, che è capo della Congregazione della fede. Ma non sposta le cose. La pratica per la beatificazione di Romero, iniziata nel 1997, rimane nelle pastoie. No, per carità, nessuno la ostacola. Solo che ci vuole tempo, si sa. La chiesa ha un sacco di tempo.
Curioso che Wojtyla che vanta tra i suoi record più difficilmente eguagliabili il numero dei santi (456) e dei beati (1288) saliti all’onore degli altari durante il suo lungo pontificato, una volta anche lui “illuminato”, non abbia trovato un posticino per Romero.
Adesso, finalmente, papa Bergoglio ha dato una spinta. Almeno così sembra. Che lo abbia fatto perché anche lui un tradizionalista – Romero disse spesso questo, che lui stava dalla parte dei poveri perché questa era la Tradizione della Chiesa, e non per il Concilio Vaticano II – o per riparare un torto vecchio o per continuare a picconare sulla Curia o per spirito di fratellanza geografica, o in memoria dei gesuiti ammazzati come cani, qualunque cosa sia arriva tardi.
Per la sua gente Romero è santo da tempo. Per il mondo intero Romero è un uomo con la schiena dritta che seppe opporre la parola della dignità e dell’indignazione contro la violenza assassina dei potenti.
Non lo aiutò nessuno. Né i curiali né quel baciapile di Carter, presidente scialbo degli Stati uniti, a cui Romero si rivolse con una lettera – visto che il venditore di noccioline aveva parlato di diritti umani – per denunciare lo scandalo del Salvador. C’era la Cia di mezzo e tutte quelle strategie geopolitiche del piffero per fermare il comunismo e perfino un pazzo sanguinario come D’Abuisson, che comandava gli squadroni della morte e dirigeva il partito politico che governava il paese, poteva essere il “loro figlio di puttana”.
Restò solo Romero, e bastò un cecchino a quel punto.
Il processo di beatificazione che la Congregazione delle Cause dei Santi porterà avanti è stato possibile perché Romero è stato ucciso in odium fidei. Il capitano che ha confessato – unico colpevole – il suo assassinio ha detto questo, che lo ammazzarono in odium fidei. Non perché stava coi poveri, non perché denunciava la brutalità del governo, no, in odium fidei. Altrimenti non lo avrebbero fatto santo.
Sono sempre tortuose le strade del Signore. Quelle che passano per la Curia di Roma, almeno.
Messina, 3 febbraio 2015