«Alle ore 12.50 del 6 gennaio 1980, l’on. Piersanti Mattarella, presidente della Regione, veniva ucciso con alcuni colpi d’arma di fuoco corta, mentre – in compagnia della moglie, della madre e dei due figli – stava per uscire da un garage vicino alla sua abitazione, in questa via Libertà, alla guida della sua autovettura, per recarsi ad assistere alla celebrazione della Messa nella chiesa di S. Francesco di Paola».
È la sentenza del Tribunale di Palermo nel processo contro Greco Michele + 18. Contro i capi dei capi dei capi. Quelli che avevano deciso tutto. Quelli che erano rimasti vivi dopo che avevano cominciato a ammazzarsi l’uno con l’altro.
Il corpo del presidente crivellato dai proiettili è dentro la sua auto. Il giovane killer che si era avvicinato alla macchina in sosta sul marciapiede e aveva fatto fuoco dopo un breve attimo di indecisione è già andato via. La moglie ricorderà per sempre un complice che le passa accanto, il suo sguardo glaciale. Era senza scorta, il presidente. Ma lo sanno tutti che a Palermo le scorte servono a poco se i capi di Cosa Nostra hanno deciso di ucciderti. È il nipote Bernardo, il figlio di Piersanti, a avvisare lo zio Sergio: «Vieni, hanno sparato a papà». Piersanti è ancora vivo. L’ambulanza non arriva. Arriva, invece, una volante. Decidono di correre in ospedale con quella, i due agenti davanti, dietro i due fratelli. Sono legatissimi, Piersanti e Sergio. L’uno è esposto, fin troppo, nella vita pubblica e politica. L’altro, più giovane, riservato, schivo è tutto una vita di studio. Hanno sposato due sorelle, Irma e Marisa. Sergio stringe Piersanti al petto. Piersanti muore tra le braccia del fratello Sergio. Per tutto il pomeriggio, sconvolto, Sergio resterà con quel suo maglione inzuppato di sangue addosso. Il sangue di suo fratello. Quel maglione inzuppato di sangue è l’inizio della sua vita pubblica, l’inizio della sua vita politica.
In giornata e il giorno dopo, arriveranno telefonate di rivendicazione da parte di Prima linea, delle Brigate rosse, di un’organizzazione neofascista. Era già successo con Michele Reina, il segretario provinciale della Democrazia cristiana. È il 9 marzo del 1979. Sono da poco passate le 22,30 e Reina ha lasciato la casa di un amico dove ha trascorso la serata e sta salendo in auto, dove lo attendono la moglie e due amici. I sicari si avvicinano e, da distanza ravvicinata gli sparano contro tre colpi secchi di calibro 38, dandosi subito dopo alla fuga, a bordo di un’auto.
Appena un’ora dopo, l’omicidio viene rivendicato con una telefonata anonima al centralino del «Giornale di Sicilia»: «Abbiamo giustiziato il mafioso Michele Reina», dice la voce che rivendica l’agguato a nome di “Prima linea”, uno dei gruppi armati più attivi del terrorismo rosso. L’indomani mattina, una seconda telefonata giunge al centralino del quotidiano palermitano della sera «L’Ora». Il telefonista dice di parlare a nome delle Brigate rosse. Rivendica l’omicidio. Tutti sanno che sono i mafiosi a uccidere in Sicilia. Nessun altro può uccidere in Sicilia.
È stagione di sangue a Palermo. I viddani – come li chiamava il boss Stefano Bontate, lui che girava in principe di Galles sartoriale, viaggiava per il mondo e aveva sposato una donna dell’aristocrazia palermitana –, i Corleonesi di Totò Riina hanno deciso di non guardare in faccia a nessuno. Da quando Luciano Liggio non comanda più e a reggere le cose c’è Totò u curtu, Totò Riina, le cose sono cambiate. Pure a un cugino dei potentissimi Salvo, amici degli amici, amici dei potenti, di Andreotti, l’hanno sequestrato e si sono presi i soldi e manco il corpo gli hanno dato. Per farci dispetto ai vecchi boss. I viddani hanno deciso la guerra. La guerra contro i ricchi, pure se sono amici degli amici, la guerra contro la politica, la guerra contro lo Stato. La guerra contro la stessa mafia. Contro i vecchi boss. Bontate, come altri, pagherà con la vita avere sottovalutato i viddani. «’Assali curriri sti cavaddi, cca annu ‘u venunu», diceva Bontate dei viddani. Lasciali correre sti cavalli, che tanto qui devono passare. Non andò così.
Maggio 1978, i viddani ammazzano il boss Di Cristina. Marzo 1979 i viddani ammazzano il segretario provinciale della Dc, Michele Reina. Luglio 1979, i viddani ammazzano il commissario Boris Giuliano. Settembre 1979, i viddani ammazzano il giudice Cesare Terranova. I viddani non si fermano. Non si fermeranno più. Ai vecchi boss tutto questo sparaspara, tutte queste ammazzatine non gli vanno troppo a genio. Loro sono più felpati, hanno un sistema rodato di connivenze con la politica e con gli affari. Hanno in mano gli appalti, hanno in mano il Comune e la Regione.
Solo che le cose stanno cambiando, il vento tira da un’altra parte. Ora, la nuova leva della Democrazia cristiana sta facendo pulizia. Ora, la nuova leva della Democrazia cristiana ha deciso di avere «le carte in regola». Erano una minoranza, ma si sono presi il partito, aiutati dal rinnovamento del centro, dagli Zaccagnini, dai Rognoni. Formano maggioranze di governo con l’appoggio dei socialisti e dei comunisti. La porta stretta è quella: il rapporto della politica con la mafia, gli appalti
È per questo che il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, ha ordinato le ispezioni sulle gare di appalto. È per questo che aveva chiesto a tutti gli assessorati regionali l’elenco dettagliato dei funzionari a cui erano affidati incarichi di collaudo. È per questo che ha chiesto di ispezionare tutta l’attività dell’assessorato ai Lavori pubblici. È per questo che, con il suo primo governo, 1978, Mattarella è riuscito a far approvare la nuova Legge urbanistica regionale. I funzionari si spaventano. I funzionari si tirano indietro. I funzionari restituiscono i faldoni. Qualcuno sussurra: «A Palermo, si spara per molto meno». È lo stesso Mattarella a scherzarne, di tutto questo cemento – il “sacco di Palermo”, lo avevano chiamato, quando i boss con Ciancimino si erano fatti grossi costruendo costruendo e costruendo – che si ferma: «Prima o poi, nel cemento ci finisco io», disse un giorno a un fedele e preoccupatissimo funzionario, un mese prima che lo sparavano.
Nell’autunno del 1979, Mattarella va al Viminale dal ministro Rognoni. È una visita ufficiosa. A luglio, i viddani hanno ammazzato a Boris Giuliano. A settembre, al giudice Terranova. A Rognoni, Mattarella parla di Rosario Nicoletti, che è il segretario regionale della Dc, e l’uomo che cerca di mediare tra le varie correnti. Gli dice che Rosario, che lo sta aiutando nel rinnovamento, è in depressione, che ogni tanto diceva di volere smettere con la politica. Glielo dice per fargli capire quanto si a difficile la situazione, quanto sia forte la tentazione di mollare tutto. Gli dice pure che c’è Ciancimino che vuole tornare in pista, nel pieno dell’attività politica, e che questo, proprio, non è possibile. Tutto il suo lavoro sfumerebbe nel nulla. Chiede aiuto Piersanti, a un amico e a un alleato. A un potente. Si vocifera di un suo possibile impegno nazionale, di una carica da vicesegretario nazionale. Piersanti non ne vuole sapere. Lui vuole restare in Sicilia. È qui la sua battaglia. Ordina il blocco di una gara d’appalto per sei scuole nel comune di Palermo.
Il secondo governo va in crisi. I comunisti adesso sono all’opposizione. Mattarella è dimissionario. Si andrà a nuove elezioni. Il suo prestigio è intatto, anzi aumentato. Non esiste governo possibile in Sicilia senza di lui. Non esiste un presidente regionale che non possa essere lui. E lui non molla.
È per questo che lo ammazzano. Il giorno dell’epifania del 1980. Una domenica. Sotto casa. Senza scorta.
Lo sanno tutti a Palermo che la scorta serve a poco, se i capi di Cosa Nostra hanno deciso di ammazzarti. La scia di sangue si allungherà.
Nicotera, 30 gennaio 2015