Mi chiamassero in guerra – è questo, ormai, il clima: la mobilitazione in armi, intanto degli animi, delle opinioni –, come riservista, debbo confessare che diserterei. Troverei un medico compiacente – me lo farei indicare, magari, da un vigile di Roma – che mi certificasse una qualche sindrome depressiva. Troverei assurdo che io fossi chiamato a fare da cariatide al crollo o al disfacimento di questo occidente, di cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile.
Pago le tasse a questo Stato. E non ho alcuna intenzione di versarle al Gran Califfo dell’Orrore al-Baghdadi. Ma il fatto che io paghi le tasse a questo Stato – e ne goda di qualche beneficio, sempre più al lumicino, per la verità – non significa che ne apprezzi la sua realtà. Spero di non essere costretto, tutte le mattine, da oggi in poi, a assistere all’alzabandiera dell’occidente e a saltare in un cerchio di fuoco, per addestrarmi “on the ground” a combattere l’islam. Oltretutto, benché cerchi di mantenermi in salute, sarei ridicolo e patetico, con gli acciacchi e le vene varicose. Molti dei nostri strateghi da operetta sono già patetici e ridicoli, e non mi va in alcun modo di fare parte di questa idiota combriccola. «Brutta cosa, il mondo dice / è la vita militar / No; che stato più felice / è difficile a trovar». Mi pare sia stato Flaubert a dire, allo scoppio della guerra franco-prussiana – l’ennesimo scontro di civiltà, certo: «Qualunque cosa accada, rimarremo idioti».
Né tampoco mi va, in nome della mia salvezza, di affidarmi ai macellai che ho combattuto. Vedete, quando Putin rase al suolo Grozny e la Cecenia, mi opposi. E mi manganellarono. E quando gli Specnaz iniettarono il gas uccidendo ostaggi e sequestratori (più ostaggi che sequestratori) al teatro Dubrovka, inorridii. Non che avessi qualcosa da spartire con quei terribili banditi da strada. Però, amavo Tolstoj e il suo Chadzi-Murat, e avevo imparato a amare il Caucaso, e avevo letto di villaggi distrutti, di donne che piangono sul corpo dei figli uccisi, e dell’odio sordo dei ceceni verso gli oppressori russi. Mi sembrava impossibile, assurdo, che le cose si ripetessero uguali. Differenti i secoli, differenti i regimi. Uguale l’idiozia degli uomini. Mi opposi anche alla guerra in Serbia. E mi manganellarono. Non che avessi qualcosa da spartire con Mladic e Milosevic. Solo che odiavo la guerra umanitaria. In nome della lingua, anzitutto, e del senso delle parole. E poi amavo Ivo Andrić e Il ponte sulla Drina e i Racconti di Sarajevo. Al tempo della prima guerra del Golfo, mi opposi. E mi manganellarono. Quando poi ci fu l’attacco all’Afghanistan e all’Iraq, mi opposi. E mi manganellarono. Non che avessi qualcosa da spartire con quegli odiosi talebani e quell’orribile Hussein. Trovai miserabile il modo in cui l’impiccarono.
Ora, i nostri strateghi da operetta (Brutta cosa, il mondo dice / è la vita militar) ci dicono che abbiamo sbagliato tutto. Che, a avercene di Hussein, che lui sì sapeva come tenerli a bada i fondamentalisti. Lui e il suo Baath erano laici, no? E che avremmo dovuto chiudere un occhio. E magari due. Ora, i nostri strateghi da operetta ci dicono che dovremmo sostenere Assad, e pazienza se ci sono duecentomila morti da guerra civile, mica li ha ammazzati tutti lui. E pure il generale al-Sisi, dobbiamo farci andare bene, quello che ha raccontato di avere sognato Sadat che gli consegnava una spada di fuoco e che per questo scendeva in campo contro la Fratellanza musulmana e revocava la costituzione e le elezioni e faceva il colpo di Stato. E pazienza per la democrazia, il voto e la primavera araba.
Avremmo dovuto dirglielo a Mohamed Bouazizi, l’ambulante che si diede fuoco a Sidi Bouzid, e innescò quello straordinario movimento di rivolta e speranza, che non valeva la pena. Avremmo dovuto dirlo a Anna Politkovskaya, la giornalista russa che raccontava degli orrori in Cecenia, e che per questo venne assassinata, che non valeva la pena. I nostri figli di puttana valgono sempre di più delle buone idee per cui ci si batte.
Cosa faremo adesso, autorizzeremo le nostre fregate a speronare i barconi degli immigrati nel Mediterraneo e affondarli? Ci saranno dei terroristi, lì in mezzo, sicuro. Ammazziamoli tutti senza distinzione. Allah il misericordioso saprà poi distinguere gli innocenti dalle anime nere. Cosa faremo adesso, guarderemo in tralice i bambini figli degli immigrati di seconda generazione, quelli che vanno a scuola coi nostri figli o i nostri nipoti e gli faremo domandine a trabocchetto – che fa la sera, papà, riceve amici? E la mamma, come si veste? – in modo da denunciarli? Allah il compassionevole avrà cura di loro.
Mi sono chiesto – perdonerete la mia deformazione territoriale e la curiosa domanda – con chi starebbe un mafioso, se con l’islam o l’occidente, ora che c’è la guerra. Poi, mi sono detto, ma la so già la risposta. Quando i neri di Rosarno, quelli che raccolgono le arance per una miseria, e vengono dal Mali, dal Ghana, dalla Nigeria, dal Burkina Faso, e sono musulmani, e volevano una paga più decente, ci fu chi difese la nostra cristianità. Erano i mafiosi di Rosarno, che gli spararono ai neri musulmani che alzavano la testa. Che stessero al posto loro. I mafiosi la sanno la lezione di Assad e del generale al Sisi, quello che si sogna la spada infuocata. I mafiosi erano i nostri figli di puttana. Ora, ammetterete che mi fa un po’ specie – perdonerete la mia deformazione territoriale – pensare che i mafiosi difendano il mio occidente dall’islam negli aranceti di Rosarno. O credete che ci pensi il prefetto, lo Stato, a difendere la mia cristianità, quello che per vent’anni succedeva la tratta dei neri ma non aveva mai visto e fatto nulla? Oppure, no. I mafiosi starebbero dalla parte del Gran Califfo dell’Orrore. Trafficherebbero in armi – e quante armi, e che armi – come fecero dopo la guerra in Serbia, e in droga, e in femmine. Dicono che al mercato di Raqqa una donna venga venduta come schiava per qualche decina di dollari. Le avranno rastrellate nella loro avanzata, i tagliagole dell’Is. Se le potrebbero comprare i mafiosi, a pacchetti, a forfait, e metterle sulle strade. Come facevano con gli albanesi a Milano. I mafiosi stanno dalla parte degli affari. It’s just business. Io no.
Il filosofo Severino, dall’alto del noumeno, della cosa in sé e della techné, ha detto una cosa semplicissima e terra terra: che al centro dei fenomeni del nostro tempo c’è la fame. Al centro dei fenomeni del nostro tempo c’è la fame, perché nessuno capisce più perché nel tempo in cui sarebbe possibile l’opulenza – o una più equa distribuzione delle cose – debba ancora esserci la fame. Debba cioè regnare il principio della scarsità – e della guerra fra gli uomini per mantenere le risorse – quando la tecnica renderebbe possibile un mondo diverso. Non c’è nessun governo in grado di convincere gli uomini che sia giusta questa distribuzione della ricchezza. A meno di convincere quelli che la distribuzione della ricchezza la agiscono, a proprio vantaggio, o sanno come avvantaggiarsene. Non c’è nessun governo che possa convincere i propri cittadini che devono rimanere poveri. Può essere laico e venire dall’ENA o avere la tovaglietta arrotolata in testa. Dura minga, dura no.
La guerra di religione, la guerra di civiltà è una grande mistificazione. Al centro, c’è la fame. Al centro, c’è la ricchezza possibile. Non chiamatemi a sbandierare vessilli dell’occidente. Non chiamatemi a difendere le bandiere nere dei tagliagole. Sto dalla parte della fame. Sto dalla parte della ricchezza possibile.
Nicotera, 12 gennaio 2015