Dice Bernard-Henri Lévy, il filosofo francese, che il 2014 è l’anno in cui è stato finalmente fermato l’orso russo che sembrava inarrestabile, e per questo verrà ricordato. E il merito di aver fermato l’orso russo e di aver bloccato quell’insaziabile demone che è Putin è tutto dell’Ucraina e di Poroshenko. Poroshenko è il nuovo presidente dell’Ucraina, eletto proprio a giugno di quest’anno. È l’uomo che ha firmato gli accordi Ue e Ucraina, la cui sospensione da parte dell’ex presidente Janukovyč aveva dato l’avvio ai fatti di piazza dell’Indipendenza a Kiev o Euromaidan, e si dichiara convinto che Kiev debba essere integrata nella Nato. Bernard-Henri Lévy dice pure che il 2015 sarà l’anno dell’Ucraina. Bernard-Henri Lévy sta un po’ in fissa con l’orso russo, e non sempre a torto. Però, stavolta dice che in piazza a Kiev c’erano uomini con la kippah a fianco dei neonazionalisti, e quindi per una volta in Ucraina non c’è traccia di antisemitismo. Io rimango interdetto. Io non so come Bernard-Henri Lévy definirebbe Pravy Sektor (Settore destro) che si richiama apertamente al Battaglione Azov ucraino, e ai suoi simboli nazisti. E in piazza c’erano. E ben equipaggiati. Ognuno vede le cose come gli pare. Lo scontro in Ucraina aveva raggiunto l’apice nel febbraio 2014, durante i quali decine di manifestanti sono stati uccisi da cecchini e dal fuoco della polizia. Anche i manifestanti sparavano. Dopo la fuga di Janukovyč, Euromaidan avrebbe vinto. Solo che è iniziata a bollire la Crimea.
Marina Achmedova che è una brava giornalista russa, spesso censurata in patria, dice che per i russi Putin è l’uomo che risolve le situazioni, quello che nei vecchi condomini sovietici era il capo cortile, quello di cui ci si fida. Dice pure che anche gli insorti del Donbass (il bacino dell’omonimo fiume della Russia e dell’Ucraina, il Donec, affluente del Don) hanno agito con la convinzione che Putin sarebbe venuto in loro soccorso. Insomma, la Repubblica popolare di Doneck come la Repubblica popolare di Lugansk, che sono regioni indipendentiste dell’Ucraina, autoproclamatesi repubblica autonoma, rispettivamente il 7 e il 27 aprile 2014, e confluite nella Federazione della Nuova Russia, come la Milizia Popolare di Donbass, sono condomini litigiosi della grande casa ucraina che si sono rivolti al capo cortile, russo. Ognuno legge le cose come gli pare. «The Vineyard of the Saker» – ovvero, la vigna del falchetto – che è un blog apertamente filorusso diretto da un ex analista militare, e che comunque fornisce sempre lucide analisi e informazioni di prima mano, ha dichiarato uomo dell’anno il soldato russo col passamontagna, quelli che arrivarono coi carri armati a prendersi la Crimea, “l’educato uomo in verde”, con questa motivazione: «Ho deciso che l’educato uomo in verde meritava questo onore rispetto agli altri per via del modo assolutamente brillante con il quale ha liberato la Crimea e protetto il suo popolo durante il referendum». Parla del referendum del marzo 2014, con cui la Crimea ha deciso di riappartenere alla Grande Madre Russia. E di Poroshenko, che Bernard-Henri Lévy incoronerebbe uomo dell’anno, pensa: «Poroshenko, così come le persone intorno a lui, sono al 100 per 100 dirette e manovrate dagli Stati Uniti». “L’educato uomo in verde col passamontagna”. “Liberato la Crimea”. Mah. Ognuno vede le cose come gli pare. Comunque, l’Ucraina ci ha tenuto col fiato sospeso, nel 2014. E probabilmente resteremo in apnea pure con l’anno che viene.
Il 14 maggio 2014 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato la sua decisione di usare Islamic State of Iraq and the Levant (Isil) come nome principale del gruppo terrorista che imperversa tra Iraq e Siria. Questa della denominazione sembra una cosa che ossessiona non solo gli americani, che con gli acronimi ci hanno un po’ la fissa. Il gruppo era stato formato da al-Zarqawi nel 2004 col nome Jamāat al-Tawḥīd wa l-jihad (Organizzazione del Tawhid e del Jihad). Nell’ottobre dello stesso anno al-Zarqawi giurò fedeltà a Osama bin Laden e cambiò il nome del gruppo in Tanẓīm Qāidat al-jihād fī Bilād al-Rāfidayn, ossia “Organizzazione della Base del jihād nel Paese dei due Fiumi” (con riferimento alla Mesopotamia, il Tigri e l’Eufrate), che insomma era un franchising di al Qaeda in Iraq. Nel gennaio del 2006, il gruppo cambiò nome di nuovo, questa volta in “Mujāhidīn del Consiglio della Shura”. E nell’ottobre dello stesso anno si unì ad altre quattro fazioni ribelli e il giorno seguente venne annunciata la fondazione del Dawlat al-Irāq al-Islāmiyya (Stato islamico dell’Iraq, ISI). Nel 2013, dopo essersi ampliato all’interno della Siria, il gruppo adottò il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, conosciuto anche come Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria, insomma, abbreviato in Isis o Isil. Facendo venire il mal di testa a tutti quelli che ne scrivono. A giugno di quest’anno sul Washington Post il giornalista Ishaan Taroor ha scritto: «Nel crescente campo di battaglia delle controversie di editing, la distinzione tra Isis o Isil non è così grande». Solo che, manco a farlo apposta, come l’avesse sentito e si fosse risentito, il Gran Califfo dell’Orrore Abū Bakr al-Baghdādī il 29 giugno 2014 ha annunciato la fondazione dello Stato islamico. Is, e basta così. Non so se aiuta a capirci un po’ in quel guazzabuglio di sigle e divisioni interne del mondo del jihad islamico, ma a febbraio di quest’anno al Qaeda ha disconosciuto lo Stato islamico (Isis o Isil o Is, che sia) guidato dal Califfo, giudicando troppo estremi i propositi del movimento. Cioè, al Qaeda ha detto – al Zawahiri, il medico egiziano che ha preso il posto di Osama bin Laden, ha detto – che il Califfo è un estremista. Mah. Ognuno vede le cose come gli pare.
Nei fatti, lo Stato islamico si regge su dodici governatori locali Iraq e Siria. Sotto il comando dei governatori ci sono dei consigli locali su finanza, leadership, questioni militari, questioni legali, assistenze ai combattenti stranieri, sicurezza, intelligence e media. Il gruppo dei media, al Furqaan, è diventato famoso per via dei video con ostaggi e tagliagola. Sigla, musichetta, dissolvenza, in diretta le news dal mondo dell’orrore. C’è pure un consiglio della shura ha il compito di assicurarsi che tutte le decisioni dei governatori e dei consigli corrispondano all’interpretazione della shari’a accettata dallo Stato Islamico. Insomma, una vera struttura di governo. I precedenti funzionari del regime siriano di Assad hanno mantenuto il loro posto di lavoro promettendo fedeltà allo Stato Islamico. Al-Baghdādī non ha commesso lo stesso errore degli americani, che smantellarono lo Stato e cacciarono via tutti i funzionari di Saddam Hussein. Vengono forniti energia elettrica e acqua, e i servizi di welfare e viene praticato il controllo dei prezzi; le tasse vengono imposte ai benestanti. Ci si occupa anche della manutenzione delle strade e della rete elettrica. Tutto il denaro viene dall’esportazione del petrolio dai campi petroliferi conquistati, e così lo Stato Islamico intasca decine di milioni di dollari. Ci comprano le armi, oltre che il welfare. Tante armi.
Con quelle tante armi, l’Is ha attaccato Kobane, una piccola città sul confine tra la Siria e la Turchia, un’enclave curda, la regione del Rojava. «Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta». È il primo capoverso della Carta del contratto sociale del Rojava. Se si vuole capire perché il Gran Califfo dell’Orrore vuole distruggere Kobane, bisogna partire da qui. Lasciate perdere lo scontro di civiltà, lasciate perdere la faglia di frattura dell’islamismo, tra sunniti e sciiti. La Carta del Rojava è un testo che parla di libertà, giustizia, dignità e democrazia; di uguaglianza, di partecipazione paritaria a ogni istituzione sociale. Parla di autogoverno, tra mille contraddizioni e condizioni durissime, e esprime un principio di cooperazione, tra liberi e uguali. Parla di rifiuto del patriarcato. Parla di rifiuto della teocrazia e di ogni fondamentalismo religioso, e di ogni assolutismo etnico, e dello stesso nazionalismo. Per il Gran Califfo dell’Orrore deve essere una cosa come Satana. Ognuno vede le cose come gli pare. Hanno iniziato gli assalti in primavera, i miliziani dell’Is. E sembrava fatta. Poi ci hanno riprovato, con più uomini e mezzi, in autunno. E entrarono in città, e la battaglia divenne moschea per moschea, casa per casa, cortile per cortile. E sembrava fatta. E nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo – gli americani anzi recitarono il de profundis. Invece, un manipolo di combattenti curdi – di cui la metà sono donne – ha resistito e continua a resistere. Ogni curdo è un poeta, diceva lo scrittore armeno Hovhannès Toumanian. Dopo Kobane si dirà che ogni curda è una combattente. Non è finita, certo. Frank Gardner, un giornalista britannico esperto di sicurezza, ha concluso che le prospettive dello Stato Islamico di mantenere il controllo e di governare sono più solide adesso di quanto lo fossero l’anno scorso. Comunque, Kobane ci ha tenuto col fiato sospeso, nel 2014. E probabilmente resteremo in apnea pure con l’anno che viene.
Il 9 agosto 2014 a Ferguson, Missouri, un sobborgo di St. Louis, un diciottenne afroamericano, Michael Brown viene ripetutamente colpito da proiettili sparati da un agente della polizia locale, Darren Wilson. Brown era disarmato. Un’autopsia privata preliminare effettuata su richiesta della famiglia conclude che Brown è stato colpito almeno sei volte: quattro proiettili erano entrati nel braccio destro, uno nell’occhio destro e un altro nella parte superiore del cranio. È già successo che un nero disarmato venga ucciso. Forse è già successo troppe volte. Le dimostrazioni di protesta diventano presto un’ondata di tumulti per più di una settimana. La gestione dell’ordine pubblico assume un carattere militare. Il governatore del Missouri, Jay Nixon, dichiara lo stato di emergenza e stabilisce il coprifuoco notturno da mezzanotte alle 5.00. Il presidente Obama rilascia una dichiarazione con la quale esprime le proprie condoglianze alla famiglia Brown, impegnando inoltre il Dipartimento di Giustizia a condurre un’indagine. La gestione della piazza viene affidata a un sergente di colore. A novembre, il Grand Jury decide di non procedere nell’incriminazione di Darren Wilson, l’ufficiale di polizia che sparò su Brown. I tumulti riprendono a Ferguson. È già successo che non si proceda nell’incriminazione di agenti di polizia bianchi che sparano su uomini di colore. Forse è già successo troppe volte. Stavolta, però, è in decine di città degli Stati uniti – da Los Angeles a Atlanta a New York – che divampa la protesta. Hands Up. Don’t shot. Sono gli slogan che da Ferguson si sono diffusi ovunque. A New York, centinaia di persone occupano la Seventh Avenue, dirigendosi poi verso Times Square, fermando il traffico, mentre i poliziotti si tenevano a distanza. “No justice, no peace”, gridavano. Ferguson ci ha tenuti col fiato sospeso.
Succede, però, che anche il Grand Jury di Staten Island, New York, decida di non incriminare l’agente Daniel Pantaleo che a luglio aveva provocato la morte di Eric Garner, afroamericano di 43 anni, tenendolo stretto al collo durante l’arresto. «I can’t breathe», Non riesco a respirare, sussurrato da Garner mentre il poliziotto lo soffocava e registrato nei video, diventa lo slogan della protesta. È già successo che un agente bianco uccida un uomo di colore disarmato. Forse è successo troppe volte. È già successo che il Grand Jury decida di non incriminare un agente bianco che ha ucciso un uomo di colore. Forse è successo troppe volte. Scoppia la protesta a New York. Partono da Staten Island, che è uno dei cinque borough di New York, per poi allargarsi a tutta la città, con mobilitazioni a Times Square, Union Square e Lincoln Center. L’America riscopre con orrore il proprio razzismo. Stupefatta, riscopre che non accade solo a Ferguson, Missouri, ma anche a New York, la capitale del mondo. Il sindaco Bill De Blasio, esponente dell’ala più liberal del Partito democratico, che è stato da poco eletto trionfalmente, sposato con una donna di colore e che ha due figli, Chiara e Dante, che somigliano tanto alla mamma, e che di questa sua famiglia fa un esempio di integrazione e convivenza, dichiara che anche lui suggerisce ai propri figli quando escono la sera se sono fermati dalla polizia di stare molto tranquilli e obbedire. La polizia di New York la prende a male. Quando un nero fuori di testa uccide due poliziotti qualche giorno dopo e De Blasio fa una conferenza stampa, i poliziotti di New York, la Nypd, platealmente gli girano le spalle. E quando, al funerale di uno dei due agenti uccisi, De Blasio fa il suo discorso, fuori della chiesa un vasto gruppo di poliziotti, centinaia, gira le spalle ai maxischermi su cui vengono proiettate le immagini. Ognuno vede le cose come gli pare. Ferguson ci terrà col fiato sospeso – I can’t breathe – anche con l’anno che viene.
La rivista americana «Time» che proclama The Person of the Year mettendolo in copertina – il primo, nel 1927, è stato Charles Lindbergh, il trasvolatore, e l’ultimo è stato papa Francesco, l’anno scorso – metterà quest’anno The Ebola Fighters, medici, infermieri e volontari che in Africa lottano contro l’epidemia del terribile virus. La scelta del «Time» è spiegata in un editoriale di Nancy Gibbs che porta in exergo questa frase: Not the glittering weapon fights the fight, but rather the hero’s heart. Non l’arma scintillante combatte la lotta, ma piuttosto il cuore dell’eroe. Ebola ci ha tenuto col fiato sospeso, nel 2014, abbiamo temuto una nuova epidemia, qualcosa di tremendo. Anche l’anno che viene si dovrà combattere Ebola. E quelli che combattono e combatteranno Ebola, sono davvero eroi, anche se non hanno armi scintillanti.
E qui c’è poco da vedere le cose ognuno come ci pare.
Messina, 30 dicembre 2014