E così ieri la Corte d’Assise di Torino ha stabilito che bruciare un compressore non è un atto di terrorismo. I quattro attivisti No-Tav accusati di eversione sono stati assolti «perché il fatto non sussiste» dalla pesante accusa per la quale i pubblici ministeri Andrea Padalino e Antonio Rinaudo avevano chiesto la condanna a nove anni e mezzo. Gli imputati sono stati condannati a tre anni e sei mesi per gli altri capi d’imputazione, cioè detenzione di armi da guerra (in relazione all’uso di bottiglie molotov), danneggiamento seguito da incendio e violenza a pubblico ufficiale. Delle parti civili solo Ltf, la società incaricata di realizzare la Torino-Lione, ha ottenuto il diritto a un indennizzo, che è stato negato all’Avvocatura dello Stato e a un sindacato di polizia che si era costituito parte civile.
Che non si trattasse di terrorismo, lo aveva già detto a maggio la Corte di Cassazione ridimensionando l’accusa della procura di Torino basata sul reato del 270 sexies, «attentato con finalità terroristiche, atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi, oltre che detenzione di armi da guerra e danneggiamenti». Era la prima volta che questo tipo di imputazione veniva rivolta agli attivisti No-Tav. Nelle motivazioni della sentenza, per la Cassazione non bastavano le argomentazione dei pubblici ministeri di Torino e aveva chiesto ai giudici torinesi di «verificare se per gli effetti riferibili al fatto contestato si sia creata una apprezzabile possibilità di rinuncia da parte dello Stato alla prosecuzione dell’opera Tav, e di un grave danno che sia effettivamente connesso a tale rinuncia o, comunque, all’azione indebitamente mirata a quel fine». Insomma, un compressore è un compressore è un compressore. E bruciarne uno non può essere un gesto in grado di fermare la volontà dello Stato di proseguire l’opera. Di fatto, la volontà dello Stato, a proseguire un’opera considerata ormai da una larga fetta di opinione inutile e dannosa, non si era mica fermata. Compressore o meno. Di fatto, pure la procura di Torino non si era fermata. Il processo era già in corso e i pubblici ministeri avevano detto che avrebbero integrato con altri elementi le loro accuse; la Cassazione non aveva scarcerato gli imputati, e questo per loro era sufficiente. Anzi, aveva rilanciato: a maggio di quest’anno erano stati arrestati a Milano e a Lecce, altri tre giovani Lucio Alberti, Francesco Nicola Sala e G. M., tutti appartenenti al circolo anarchico «La mandragola»: era stata un’intercettazione con una cimice in un bar a incastrare i tre ragazzi. Uguali i fatti, uguali le accuse, nonostante la Cassazione, solo “integrate” con “approfondimenti in corso”. Come dire che prima ti accuso e poi porterò le prove che tengano in piedi l’accusa. Dopo la sentenza di ieri, però, le cose si mettono meglio anche per loro.
Riepiloghiamo i fatti. Risalgono alla notte tra il 13 e il 14 maggio dell’anno scorso. Un gruppo di persone, col volto coperto e vestite di scuro, arrivano dal bosco e attaccano il cantiere Tav del cunicolo esplorativo di Chiomonte. Prendono d’assalto il perimetro del cantiere tagliando un piccolo tratto di recinzione, cercando di bloccare con cavi di acciaio alcuni varchi e contemporaneamente lanciando bengala e razzi. C’erano degli operai dentro, è vero. Ma nessuno restò ferito, ammesso che qualcuno volesse davvero far male. La Digos considerò colpevoli quattro giovani, arrestandoli a dicembre: Claudio Alberto, Mattia Zanotti, Chiara Zenobi e Niccolo Blasi che in verità era già in carcere. Scatta la mobilitazione del movimento No-Tav che chiede la libertà dei quattro giovani. Li rivendicano come parte della loro storia, del loro territorio, della loro opposizione. Se sono terroristi quei quattro, allora tutto il movimento No-Tav è terrorista. Il movimento fa quadrato e ribadisce la posizione di sempre: «È una follia considerare terrorismo l’incendio di un compressore». La Cassazione sembrava della stessa opinione. E ancora: «Se loro sono colpevoli allora lo siamo tutti, perché questa è la nostra lotta. E ha come obiettivo difendere la nostra terra».
Bisogna dire che non era la prima volta che la Cassazione respingeva gli impianti accusatori della procura di Torino: nel 2001 aveva annullato le sentenze che condannavano Edoardo Massari, Maria Soledad Rosas e Silvano Pelissero. Edo, Sole e Baleno. Solo che nel frattempo Baleno ne era uscito a pezzi, Edo si era impiccato nella sua cella al carcere delle Vallette e Soledad era stata trovata impiccata nella comunità dove scontava gli arresti domiciliari. E nel 2012 la Cassazione aveva annullato l’ordinanza del tribunale del riesame di Torino che aveva tenuto in carcere per mesi due No-Tav accusati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale.
Prima di abbandonare la magistratura anzitempo e prima di dimettersi da Magistratura democratica per aver pubblicato sulla loro “Agemda” un testo di Erri de Luca che gli sembrò eccessivamente ambiguo e una lettura degli anni Settanta troppo “aperta”, Gian Carlo Caselli aveva parlato di «atto di guerra» relativamente ai fatti che erano contestati dai pubblici ministeri di Torino ai giovani No-Tav. Aveva parlato anche di “mafia”. Concetti che erano stati messi assieme in un editoriale de La Stampa in cui senza tentennamenti si affermava che «in Valsusa il terrorismo c’è già. in una forma inedita, tra l’intimidazione ambientale di stampo mafioso e il cecchinaggio individuale di marca pre-brigatista, tra l’opprimente Corleone di Riina e i caldissimi picchetti nei primi anni Settanta».
Uno scenario inquietante, molto suggestionante ma che mette assieme capra e cavoli, la mafia e il terrorismo – dev’essere un “vizio” questo, nelle procure d’Italia –, condannando penalmente la lotta sociale, il conflitto. Il tribunale di Torino è da tempo intasato dai processi No-Tav. Centinaia di cause giacenti presso il tribunale sono rinviate pur di liberare aule per i processi contro sindaci, consiglieri comunali, barbieri, operai, mistici della montagna, studenti, disoccupati, insegnanti, ex comici, militanti, agricoltori, tutti accusati di aver commesso reati per la causa No-Tav. Per una semplice accusa di resistenza a pubblico ufficiale c’è chi è rimasto in carcere fino a un anno.
Ieri l’altro, l’ex magistrato Palombarini ha presentato a Roma, alla Fondazione Basso – e lo ha già fatto a Padova –, il suo libro Il processo 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore sulla propria esperienza relativamente al processo contro quel mosaico di movimenti e di persone riuniti sotto la sigla di “Autonomia”. «Tutto – scrive Palombarini – cominciò sabato 7 aprile 1979. Alle 10 un aereo atterrò al Marco Polo di Tessera. Ne discesero una cinquantina di ufficiali della Digos (…) Neppure un’ora dopo la città era assediata da mezzi blindati». Era l’inizio del blitz che doveva portare in carcere studenti, militanti e professori universitari, con la pesantissima accusa di costituire il braccio armato di un movimento che voleva sovvertire lo Stato democratico. Era il “teorema Calogero”: le Brigate rosse non costituivano un gruppo isolato e ristretto di persone dedite alla lotta clandestina e armata, ma facevano parte di un’organizzazione più ampia e complessa. Capra e cavoli. Il processo poi fu avocato a Roma, con l’accusa di insurrezione armata. Carcerazione preventiva a iosa, anni di processi. Tante assoluzioni dopo tanti anni.
Con la dovuta distanza per la differenza dei tempi e della storia, ci fosse stata nel 1979 una Cassazione come quella che ieri ha respinto il teorema della procura di Torino, ecco.
Roma, 17 dicembre 2014