Lorys: ombre, sagome e manca il movente

Dunque, adesso dovremmo avere capito perché Veronica ha ucciso. «Il movente del delitto del piccolo Lorys va ricercato in un profondo stato di disagio psicologico della signora Veronica Panarello, disagio che risale a epoche lontane e che però ha avuto esplicazioni anche in epoche recenti». Sono le parole del procuratore di Ragusa, Carmelo Petralia, che coordina le indagini sull’omicidio di Santa Croce Camerina. Però.
Però, se dovessimo considerare tutte le persone che manifestano uno stato di profondo disagio solo per questo come potenziali assassini, hai voglia, fai una lista lunga chilometri. Il giudice per le indagini preliminari Maggioni, che ha firmato l’arresto di Veronica, aveva sottolineato la «cinica condotta tenuta» dalla donna e la «evidente volontà di volere infliggere alla vittima sofferenze, con un’azione efferata, rivelatrice di un’indole malvagia e priva del più elementare senso d’umana pietà». Sono parole pesanti e dure che fanno a pugni con quelle di un’intervista di ieri l’altro del marito di Veronica: «Dieci anni assieme, e mai una stranezza. A me e ai due bimbi non ha mai fatto mancare niente». Mai una stranezza. La casa pulita, i figli sempre in ordine, i colloqui con le maestre, i pasti cucinati con cura e affetto. E poi un matrimonio per amore, un figlio avuto per amore. Il quadro che esce dal racconto di Davide Stival è quello di una famiglia unita e felice. Se Veronica Panarello era fuori di testa, sapeva nasconderlo proprio bene.
Eppure, il procuratore Papalia ha sposato la tesi della premeditazione, come sinora esposta dalle conclusioni dei pubblici ministeri Petralia e Rota, per cui la donna non avrebbe agito d’impulso e in un momento d’ira. Il procuratore Papalia sembra convinto di avere trovato il bandolo di questa matassa, e anzi rovescia il possibile paradigma di un gesto improvviso di oscura follia nella premeditazione. Tre scenari: «Ipotesi A, sia la fase volitiva che esecutiva del delitto e anche quella dell’occultamento del cadavere interamente riconducibile alla condotta della signora. Ipotesi B, in cui sia la fase volitiva che esecutiva siano riconducibili alla signora e vi sia un intervento, quindi sotto il profilo di concorso nel reato nella fase di occultamento, con qualcuno che avrebbe potuto aiutarla. Ipotesi C, una partecipazione di altri o altro soggetto sia alla fase volitiva, sia a quella esecutiva ed anche all’occultamento». In parole povere, premeditazione in ogni possibile scenario degli eventi, e l’unico dubbio del procuratore è se ci sia stato un complice o meno, solo per nascondere il corpo di Lorys oppure per tutta la vicenda. L’affannosa ricerca del “secondo telefono” che avrebbe dovuto svelarci i mille misteri di questa storia – telefonate segrete, l’esistenza di un amante, caterve di sms –, e poi finalmente trovato, non ha aggiunto una minima certezza. Dove eravamo quella mattina, lì siamo rimasti.
O meglio, finora si è andati per esclusione. L’orribile risvolto sessuale, sul quale nei primi giorni c’è stata una rincorsa dei mezzi di informazione all’effettaccio – segni di violenza, segni di violenza perduranti nel tempo –, è sfumato. Il possibile gesto di vendetta o ritorsione contro la famiglia, è sfumato. L’incidente o chissacosa con un ragazzetto amico del piccolo, è sfumato. Rimane, come sempre, la madre. Basterebbe questo? E perché dovrebbe bastare un quesito posto così: Se non lei, chi altri?
Quello che con certezza finora emerge “nei dintorni” dell’inchiesta è l’atteggiamento non amorevole, diciamo così, della famiglia nei confronti di Veronica. La madre, intercettata a parlare con la nonna, si dice convinta che Veronica abbia ucciso il bambino perché odiava tanto lei. E l’una e l’altra donna sembrano ingigantire ogni dettaglio della sequenza di eventi di quella mattina per dare addosso a Veronica. Il nonno, poi, anche lui intercettato, si limita a mormorare implacabile: «Buttana». La cosa l’ha colta, il procuratore Papalia, parlando di un vissuto personale di profondo disagio nei rapporti con la famiglia d’origine come «una possibile concausa della determinazione omicida». La causa l’avrebbe già spiegata. Ma davvero si può uccidere il proprio figlio per far dispetto alla propria madre?
Davide Stival appartiene forse a quella razza di mariti che non si rendono conto che la casa sta prendendo fuoco. Gente che si spacca la schiena, come lui in giro sempre con il camion, per un qualche sogno ravvicinato, il mutuo da pagare. Sono tutti, i mariti delle madri che un giorno uccidono i figli e spesso se stesse, “gran lavoratori”. Persone laboriose. Persino premurose. Incapaci a capire quello che sta succedendo. Stival, che avrebbe riconosciuto in alcune sequenze di telecamere della zona l’automobile di Veronica dalle parti del Mulino Vecchio dove è stato ritrovato il corpo di Lorys, ha dato addosso alla moglie. Dice che non può non credere a quello che va spiegando la procura, ci si aggrappa. Nello stesso tempo, non riesce a darsi una ragione degli eventi, non riesce a spiegarsi perché. E se ripensa alla propria vita, alla propria famiglia ne viene fuori un quadro di serenità. «Io devo credere a quello che mi dicono gli inquirenti. Quella che si vede nei filmati è la macchina di mia moglie: ma se sia stata lei, non lo so». Ci sono ombre, sagome.
Forse, Stival non è “attendibile” quando difende la moglie. Se è così non dovrebbe essere neppure “attendibile” quando la accusa.
Nei prossimi giorni dovrebbe svolgersi il funerale del piccolo Lorys. Stival ha chiesto che non ci siano telecamere e microfoni, che lo lascino in pace. Lui ne ha proprio bisogno.
Noi avremmo bisogno di avere qualcosa di più che ombre, sagome e le ipotesi A, B e C.

Roma, 16 dicembre 2014

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