A Ferguson brucia l’America

Le maschere sono bianche, sono quelle di Anonymus, quelle di Guy Fawkes, quelle di V per vendetta, quelle ormai famose in tutto il mondo, indossate da chi protesta, a Roma come a Goteborg, a Bordeaux come a Mosca, a Hong Kong come a Atene, ora a Ferguson, Missouri. Le maschere sono bianche. Le facce però, sotto le maschere, sono nere.
Ci sono tre ragazzi neri sul cofano di un’auto. Uno di loro ha la maschera di Anonymus calata sul petto. Alzano il pugno chiuso verso il cielo. Uno di loro ha un guanto nero. Sembra Città del Messico, Olimpiadi 1968: Tommy Jet Smith e John Carlos sul podio dei duecento metri. Sventola la bandiera, The Star-Spangled Banner. Ascoltano l’inno senza scarpe, calzini neri, testa bassa.  Black Power.
Qualcuno porta la bandiera americana per le strade di Ferguson in protesta, stars and stripes, God bless America. Solo che è al rovescio, come quando si portava durante le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, dopo la strage di My Lai, cinquecento civili vietnamiti inermi uccisi dai soldati statunitensi. Vergogna. La più potente nazione del mondo, alfiere della libertà, dell’indipendenza, dei diritti, non può macchiarsi di orrore. Vergogna. O say, does that star-spangled banner yet wave / O’er the land of the free and the home of the brave? Dì dunque, sventola ancora la nostra bandiera adorna di stelle / sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi?
Pochi giorni fa una foto meravigliosa ha fatto il giro del mondo: il soldato Sabryna Schlagetter e sua moglie Cheyenne, che si sono unite in matrimonio nel New Mexico, poco prima che Sabryna partisse per la missione in Afghanistan, si baciano al suo ritorno. Sullo sfondo la bandiera americana. È al diritto, non al rovescio. È una foto contro qualsiasi pregiudizio. L’orgoglio di essere americani. Dio benedica l’America. È stato Obama a abolire il «Don’t ask, don’t tell», una conquista ai tempi di Clinton, contro la discriminazione, ma che ora impediva ai militari di dichiarare le proprie scelte: fino a un paio d’anni fa sarebbe stato impossibile, per un soldato statunitense, baciare in pubblico una persona del proprio stesso sesso.
Ora Obama si trova tra le mani la rivolta di Ferguson, dopo la decisione del Grand Jury di non incriminare Darren Wilson, l’ufficiale di polizia che sparò sei colpi su Michael Brown. Obama non ha mai dimenticato quanto sia profonda ancora la discriminazione razziale negli Usa: quando morì il ragazzo Travyon Martin fece uno dei suoi più belli discorsi. «Poteva essere mio figlio», disse, battendosi contro la lobby delle armi. Quando a Ferguson, scoppiarono i primi tumulti, cambiò i vertici della polizia e affidò la piazza e le indagini a un uomo di colore. Ma il Grand Jury ha deciso.
Buona parte dei procedimenti del Grand Jury sono rapidi e semplici: poche testimonianze, la pubblica accusa istruisce il caso, i giurati votano. Ma il Gran Jury del caso Wilson è stato straordinariamente lungo, ha ascoltato quello che la pubblica accusa ha definito “assolutamente ogni cosa” che sarebbe potuta essere considerata testimonianza o di una qualche importanza nel caso. Mentre in genere quello che accade nelle stanze del Grand Jury è quasi sempre tenuto segreto, la pubblica accusa ha insistito per rendere immediatamente disponibile ogni trascrizione al pubblico, non appena la sessione di giudizio si concludeva.
I giurati si sono incontrati per venticinque giorni, lungo tre mesi. Hanno ascoltato settanta ore di testimonianze da circa sessanta testimoni. E si sono trovati di fronte a una enorme quantità di rapporti della Scientifica, registrazioni delle radio della polizia, documenti medici e trascrizioni di interrogatori condotti dall’Fbi ai presenti sulla scena del delitto. Dopo tre mesi di audizioni, prima di congedarli per la loro sessione definitiva, un assistente della pubblica accusa ha spiegato ai giurati quali sarebbero potuti essere i capi di incriminazione: omicidio, omicidio colposo, omicidio involontario. E ha aggiunto: «Abbiamo provato a darvi a balanced presentation of the evidence, una presentazione equilibrata delle prove. Forse ci avete visto fare avanti e indietro, ma proprio perché abbiamo fatto di tutto perché voi raggiungiate la verità. Sono sicuro che prenderete la decisione giusta». I giurati si sono riuniti venerdì 21 pomeriggio. A mezzogiorno di lunedì avevano formulato il verdetto: Darren Wilson, il poliziotto che ha sparato, è non colpevole. Forse le prove erano talmente tante, forse le testimonianze erano talmente tante, forse le perizie erano talmente tante, che uno non si raccapezzava più. La giuria era composta da nove bianchi e tre neri. La pubblica accusa ci ha tenuto a dire che questo rispecchiava la composizione sociale. Non è vero. A Ferguson il sessantasei per cento sono neri. E in polizia il novantacinque per cento sono bianchi. Ma il Grand Jury ha deciso.
Un uomo con un megafono grida: No justice. E la folla risponde: No peace. Lui continua: No racist. E gli altri: No police.
Migliaia di persone si sono prese le strade – da Los Angeles a Atlanta a New York – per protestare contro la decisione del Grand Jury. A New York, centinaia di persone hanno occupato la Seventh Avenue, dirigendosi poi verso Times Square, fermando il traffico, mentre i poliziotti si tenevano a distanza.
“No justice, no peace”, gridavano.
«Ci sentiamo frustrati», ha detto un giovane che da New York si è spostato a Atlanta e indossava una bandana con la bandiera americana. «È una cosa sistematica, questa che è successa».
A Philadelphia, una enorme e ordinata folla si è mossa cantando e suonando tamburi: «Justice for Mike Brown».
A Los Angeles Sud, una folla di protestanti cantava “From Ferguson to L.A., these killer cops have got to pay”. Non siamo qui per socializzare, siamo qui per chiedere giustizia, dice Melina Abdullah, professore del Dipartimento di studi pan-africani alla California State University, Los Angeles. La maggior parte delle dimostrazioni sono state pacifiche. Ma Ferguson brucia.
Dio benedica l’America.
Dì dunque, sventola ancora la nostra bandiera adorna di stelle / sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi?

Nicotera, 25 novembre 2014

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