Sognavamo la California, ci ritroviamo con schiavi e caporali

Pare che costerà almeno centoventi milioni di dollari la new town di Mark Zuckenberg per i lavoratori del gruppo facebook. Quattrocento nuovi appartamenti che ospiteranno gli impiegati della grande azienda californiana. A Menlo Park, dove sta il quartier generale dell’azienda, ormai sono stretti come sardine, e così si è deciso di costruire questa company town a cinque minuti di bicicletta. «Non dovrai neanche stringere i freni una volta, e sei arrivato», ha detto un impiegato. Per quelli di facebook, oltre agli appartamenti, c’è il cibo gratuito, e le serate organizzate di cinema, e il salone per i capelli.
È un po’ la stessa filosofia che regna a Mountain View, Silicon Valley, dove stanno i lavoratori della Google. Spazi all’aperto, terrazze di verde, sale da biliardo, angoli e giocattoli per i bambini, stanze di riposo per le madri, e puoi andare al lavoro con il tuo gatto o con il tuo cane.
Ci avevano detto che con il capitalismo tecnologico sarebbe andata così per tutti, che il futuro del lavoro era questo qua. E mica solo per gli americani, eh, che stanno sempre davanti. Pure per noi europei, pure per noi italiani, pure per noi meridionali. Basta baracche vicino alle miniere in Belgio, quando per un lavoratore emigrato ci veniva un tot di carbone, o alle fabbriche di automobili in Germania, a Wolfsburg, a Stoccarda, a Duisburg per un un tot di benefici nella Comunità europea. C’era il “modello rotatorio” – via gli uni avanti gli altri – per un “soggiorno temporaneo e prolungato”. Molti lo prolungarono a vita il soggiorno temporaneo. Basta queste robe qua. Liberismo libera tutti, tana.
In Basilicata, al tempo delle migrazioni europee, dormivano uomini e bestie insieme, i contadini e il loro ciuccio. Stavano nei sassi, scavati nelle rocce di calcare, quando andava bene. Il ciuccio era prezioso, era lo strumento da lavoro, bisognava curarlo bene, trattarlo come un cristiano, mica lo potevi lasciare all’acqua e al vento come le bestie. Ora quegli uomini vanno a letto con il martello pneumatico, con la sega, lo sparachiodi, gli attrezzi da lavoro per l’edilizia. No, non nei Sassi, che sono patrimonio dell’umanità e sembrano il presepe di Natale. In Svizzera, al confine.
Li hanno scoperti così, per caso, perché il fiume ha esondato per le piogge e c’era un capannone industriale abbandonato che si andava allagando e allora sono arrivati i vigili e hanno trovato quella roba là. Una company town svizzero-italiana, nel senso che stava in Italia, a Germignaga, nella zona di Luino, Varese, per dormire, a quattro chilometri dal confine svizzero, Canton Ticino, per lavorare. Cinque minuti di bicicletta, volendo, senza mai frenare.
Diciassette persone ammassate in questo capannone, con lettini di fortuna, impianto elettrico volante, le proprie cose ammucchiate come capitava. In mezzo alla gru, all’impastatrice, ai tubi per le impalcature. Li aveva reclutati un caporale del lavoro, uno del sud, certo, uno della Basilicata. Ehi, cumpà, vuoi venire a travagliare in Sguizzera? Uno che aveva affittato il capannone mesi prima e ora si faceva pagare il posto-letto. Dai suoi compaesani. E si prendeva il pizzo sulla paga. La mattina, sul camion o l’ape, con gli attrezzi tirati via da sotto il letto, si partiva per i cantieri svizzeri. La sera, si tornava. Italia, ‘o paese do’ sole. C’era pure una donna fra loro, una rumena di cinquant’anni. Forse se l’erano portata dietro per fare la cucina. Forse lei ci faceva pure la cresta.
Venivano tutti dalla Basilicata. Quasi tutti. C’erano anche due rumeni, un polacco, uno svizzero. Il caporalato è internazionalista. Che gliene fotte dei confini? Quando sono arrivati i carabinieri, non volevano uscire da là dentro, anche se l’acqua continuava a salire. C’erano tutte le loro cose lì, e poi adesso dove sarebbero andati? I carabinieri hanno sequestrato tutto. Ma senza il camion, senza l’ape come vanno a lavorare?
Ora, lì a Germignaga, Varese, dicono che nessuno mai s’è accorto di niente. Come se invece tutto quello che hanno tirato su da quelle parti o che girava un tempo da quelle parti fosse venuto su per miracolo. Come se dall’altra parte del confine, in Svizzera, neppure ci avessimo buttato il sangue, perché loro vivessero lindi e pinti, coi laghetti con le papere e le mucche. E le banche che sembrano negozi di cristalleria. Tutti, sempre, con la testa girata dall’altra parte. «No signore avvocato / sentite a me nu ve mettite scuorno / io pe’ ve fa’ signore aggio zappato / e sto’ zappanno ancora notte e ghiuorno / e so’ duje anne duje / ca nun scrive nu rigo a casa mia», così cantava Merola.
Evidentemente non c’era posto per tutti alla meravigliosa Fiat di Melfi, il fiore all’occhiello di Mr. Elkann e Mr. Marchionne, che c’è andato e s’è fatto applaudire. Ci fanno la Jeep Renegade a Melfi, quella che si vende un fottio in California. E allora meglio andare. A vivere da bestie.
Le nostre magnifiche città sono piene di questi tuguri. Ci stanno cinesi, ci stanno rumeni, ci stanno bengalesi. Per loro c’è un solo articolo di Statuto del lavoratore, l’articolo uno che recita così: «Da oggi sei uno schiavo». Anche i nostri ridenti paesi hanno queste splendide company town. Ce n’era una a San Ferdinando, Rosarno, Calabria, che è arrivata a ospitare un migliaio di persone. Sembrava, se ci andavi, di stare a Johannesburg, come l’hai vista nei film, nelle baracche vicino alle miniere dei bianchi. Era così, prima di Mandela. A volte sembra che sia ancora così, dopo Mandela.
Forse è che il capitalismo è così dappertutto, e non ne vuole sapere di cambiare. È internazionalista. Che gliene fotte dei confini?
Meno in California, Silicon Valley. Lì sembra il paradiso, per chi lavora.
E ci avevano detto che ci sarebbe stato posto per tutti nel paradiso delle tecnologie informatiche, che avremmo finito di romperci la schiena, di fare gli schiavi, di penare, di rischiare la vita. Liberismo libera tutti, tana. Ci avevano detto che saremmo andati in bicicletta al lavoro, cinque minuti, senza neanche frenare.
Forse, per quelli che vengono dal sud non c’è posto mai per sto paradiso. Stanno stretti come sardine, lì. E all’inferno, invece, c’è spazio a strafottere.
Cantava Mario Merola: «pecche parlamme e nun facimme niente / ccheste ‘e na storie e tanto tiempo fa / tu cà si state ll’urdeme emigrante». Quanto si sbagliava, Merola, altro che l’urdeme emigrante.

Nicotera, 8 novembre 2014

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