Ci avevano detto – gli analisti, i politologi, gli esperti delle cose americane – che quel che conta per l’elettorato degli States è l’andamento dell’economia, a farlo decidere su come votare. D’altronde sarebbe stato proprio questo, il nocciolo dell’economia, le condizioni materiali tangibili da ciascuno, a far vincere Clinton alle prime presidenziali del 1992, no? L’allora presidente George H. Bush, il vecchio, era ritenuto il favorito per le elezioni e durante la Guerra del Golfo aveva goduto di circa l’80 per cento dei consensi. Poi, nonostante in campagna elettorale avesse ripetutamente promesso di non farlo, approvò un aumento delle tasse in seguito a un accordo con i democratici per ridurre il deficit. Clinton martellò su questo, ricordate la sua famosa battuta rivolta a Bush, il vecchio: «It’s the economy, stupid». Ne venne, con la sua elezione, un aumento dell’occupazione e un periodo di mobilità e prosperità come non si vedeva da tempo, Da ieri, la colpa di Obama – per gli analisti, i politologi – è di essere troppo cerebrale. Anche se – e hai voglia a nocciolo dell’economia, qui – ha portato il paese fuori dalla più grave crisi economica dopo la Grande depressione degli anni Trenta. Ora non conta. Troppo cerebrale. Cos’è, doveva giocare anche lui con il sigaro e la stagista sotto la scrivania, per non essere cerebrale?
Non era stato eletto per la sua forza simbolica, Obama? Un afroamericano, difensore dei diritti civili, il cui percorso personale ricalcava il sogno americano. Che grande paese è l’America, che meravigliose opportunità dà l’America. Oggi, no, non conta più. Non è l’uomo che aveva promesso di ritirarsi dall’Iraq e dall’Afghanistan e che avrebbe comunque intensificato la caccia a bin Laden e lo ha preso? Oggi no, non conta più. Chi ha la pazienza di ascoltare i suoi discorsi, la sua voce, sente quanto siano impastati di richiami alla religiosità, alla tradizione americana. C’è Walt Whitman e Robert Frost, c’è Martin Luther King, c’è Roosevelt e Kennedy, dentro. La frontiera, i grandi spazi, l’industria, Bruce Springsteen e Pete Seger, la libertà e l’indipendenza, la lotta per i diritti che nessuno te li regala. Obama non ha mai dimenticato quanto sia profonda ancora la discriminazione razziale negli Usa: quando morì il ragazzo Travyon Martin fece uno dei suoi più belli discorsi. «Poteva essere mio figlio», disse. Quando a Ferguson, Missouri, scoppiò la rivolta perché un poliziotto bianco aveva ucciso un giovane nero inerme, cambiò i vertici della polizia e affidò la piazza e le indagini a un uomo di colore. Oggi, si ricorda che si è laureato a Harvard, come se il fatto che George W. Bush, il giovane, si sia laureato a Yale abbia mai significato qualcosa.
Ora dicono che dopo la conquista del Senato e la Camera già in loro possesso, i repubblicani hanno fatto del presidente un’anatra zoppa. Alle elezioni per il secondo mandato di Clinton (1997-2001) i repubblicani persero alcune poltrone alla Camera e ne guadagnarono qualcuna al Senato, mantenendo comunque il controllo di entrambi. Un anno dopo scoppiò lo scandalo Lewinsky e gli scatenati repubblicani diedero inizio alla procedura di impeachment. Lui sì, sarebbe dovuta essere un’anatra zoppa, Clinton, e invece fu una buona presidenza. Quando lasciò la Casa Bianca, aveva raggiunto il massimo dei consensi, al livello di Reagan e Franklin Delano Roosevelt. Negli ultimi tre anni del suo mandato – quand’era sotto schiaffo dell’impeachment – gli Stati uniti hanno registrato un surplus nel bilancio di 69 miliardi di dollari nel 1998, di 126 miliardi in 1999, e di 236 miliardi nel 2000.
Il fatto è che nessuno ci capisce un cazzo sui motivi di pancia e di testa che spingono l’elettorato a votare in certi modi. I sondaggi a volte sì, se sono fatti bene – e ultimamente non è così – riescono a registrare lo spostamento degli umori. E rimane sempre un’area aleatoria di indecisi che si attesta tra un quarto e un terzo dei voti. Considerando che Al Gore perse la presidenza – sì, è vero, fu un colpo di Stato, però, in ralenti – per qualche centinaio di voti, oltre una percentuale minima dispersa dall’indipendente Nader, si può capire quanto affidabili siano i sondaggi. Le analisi e le politologie ci dicono solo sofisticate o banali teorie su quello che è già accaduto. Niente ci dirà che la prossima volta le cose andranno secondo le sofisticate o banali teorie che vengono utilizzate adesso adesso.
Se Obama è stato sconfitto per il tentativo di portare avanti la sua riforma sanitaria, per le leggi sulle armi o per quelle sull’immigrazione, per le iniziative sulla scuola pubblica, per la ritrosia a mettere gli scarponi sul terreno, per la battaglia sull’aumento del salario minimo a 10,10 dollari l’ora, per la parità salariale tra i generi, se questa è la sua “cerebralità”, allora siamo fritti: altro che W. Bush, il giovane, o qualcosa clonato simile ci ritroveremo tra due anni, altro che un ubriacone cristiano rinato, mano armata dei potenti gruppi petroliferi, operatore dei ricchi a cui abbassare ancora di più le già deboli tasse e dei guerrafondai più spietati per interessi di proprie aziende. I quattro cavalieri dell’Apocalisse arriveranno. Coi cappucci e le croci in fiamme.
Obama avrebbe pagato la morte di James Foley, il mancato riscatto del fotoreporter sequestrato dall’Isis. Lo sanno tutti che gli americani non pagano riscatti. È dai tempi del sequestro del piccolo Lindbergh che non pagano riscatti. Se possono, provano a liberare l’ostaggio. E poi che curioso pensiero è che il Gran Califfo dell’Orrore sequestra, Jihadi John taglia la gola, e Obama ne è responsabile?
Forse è colpa dell’ebola, Obama avrebbe pagato per il terrore dell’ebola. Come se l’ebola – un caso solo accertato – fosse Katrina, l’uragano che spazzò la Louisiana nell’assoluta incapacità repubblicana di attivare gli aiuti, nel girone infernale del Superdome di New Orleans. Beh, un altro caso accertato di ebola, stavolta politica, c’è stato in verità. E ha colpito Obama: i candidati democratici hanno fatto a gara a prendere le distanze, a non chiedergli di intervenire ai loro comizi e alle loro campagne. Sembrava la pubblicità contro l’Aids con l’alone viola intorno alla figura della persona: se lo conosci, lo eviti. L’avevano già mollato su una serie di battaglie, sull’immigrazione, sulle armi, sulla sanità, sul trattato con gli europei. Beh, è stato un calcolo sciocco. E l’hanno pagato.
Forse – ci sarà qualcuno che lo pensa, metterei la mano sul fuoco – sta pagando la sua aperta ostilità nei confronti delle politiche dell’Israele di Netanyahu? È colpa degli ebrei?
Le verità sono due: la prima è che l’uscita dalla crisi – e non va dimenticato che il primo quantitative easing di sostegno alle banche in piena crisi lo fece Bush il giovane – è in buona parte merito della Federal Reserve e di Ben Bernanke, un repubblicano. La cui politica pragmatica («Non ci sono teorie buone, solo buone pratiche») è oggi seguita da Janet Yellen, sua ex vice al board. Insomma, la politica monetaria ha camminato a fianco, ma autonomamente. Se Mario Draghi potesse muoversi come ha potuto fare Bernanke e come fa la Yellen, forse l’Europa non starebbe ancora con il culo per terra.
La seconda: che la minoranza bianca aggressiva si va compattando e consolidando attorno le tematiche dei gruppi cristiani più oltranzisti e del Tea party: non importa che alcuni dei nuovi governatori e dei neoeletti siano dei “moderati”: hanno vinto facendo proprie quelle tematiche. Mentre le maggioranze ispaniche e afroamericane sono frammentate, e in rinculo. Obama vinse perché portò i neri e gli ispanici e molti giovani a votare. Dopo sei anni e tante battaglie perse o vinte a metà o un quarto, c’è molta disaffezione alla politica. Gli ultimi due appelli di Obama erano: andate a votare. Fece addirittura un paragone con l’Ucraina e i referendum dei giorni scorsi, per dire come lì fossero affollate le urne. Non ha funzionato. Però, però, non erano le presidenziali. Le complicate alchimie di Camera e Senato non affascinano più di tanto, e ci sono stati governatori repubblicani – lo ricordate Schwarzenegger in California? – che si sono comportati in maniera più liberal dei democratici, e in materia di bilancio e in materia di diritti civili.
Nell’Arkansas hanno perso i candidati dei Clinton. Hillary s’era spesa molto, anche altrove, ma i suoi non ce l’hanno fatta. Forse la perdita dell’Arkansas è davvero simbolica. Si chiude un ciclo. Io non credo che Hillary Clinton correrà per i democratici alle presidenziali del 2016.
Sarà una donna, certo. Solo che si chiama Elisabeth, Elisabeth Warren. Lei continua a dire che non sta correndo per le prossime presidenziali. Forse lo pensa ancora davvero. È una costituzionalista, è cerebrale, forse sarà per questo che non ha mai mollato Obama. È una liberal molto radicale, ha insegnato nelle più prestigiose università americane, capisce di economia e finanza come pochi. Ha una faccia pulita e così americana, ma il sito Politico.com, forse il più documentato di analisi politica americana e internazionale – è repubblicano –, l’ha definita «untempered and raw», dura e cruda. È una di battaglia, una che stava dalla parte dei manifestanti di Occupy. A volte ha i tratti del sano populismo americano. La finanza di Wall Street – quella che ha portato il mondo sull’orlo del collasso e adesso è tornata a fare affari alla grande – la considera il nemico numero uno, dato che la Warren voleva amputargli qualche artiglio – mentre la Clinton è stata messa sotto torchio dai democratici del Massachusetts per essere troppo pappa e ciccia con Wall Street. Se andasse davvero così, che la Warren si decide a correre e vince le primarie e la sfida per le presidenziali, se si trovasse contro l’asse del male della finanziarizzazione, perché così stanno le cose o perché così si rappresenteranno simbolicamente, e la Warren parlasse della rabbia di chi non ha lavoro e assistenza, di smodatezza della finanza, di non patriottismo di Wall Street, e sa farlo ragazzi, oh se sa farlo, beh, questo potrebbe proprio essere la sua vera chance di vittoria. E forse anche la nostra.
Intanto, ci sono ancora due anni di lavoro duro, Mr. President. C’è l’Is del Gran Califfo dell’Orrore e la Siria, c’è il Medio Oriente in fiamme, c’è la Tunisia e qualche barlume di primavera araba ancora in vita, che lei guardò con simpatia, c’è l’Iran, c’è Putin e l’Ucraina e la Crimea, c’è la dignità del lavoro e la parità, c’è l’immigrazione da legalizzare, c’è la legge sulle armi, c’è il bilancio federale che sfonda ogni tetto, c’è il razzismo, c’è da far ripartire bene l’economia del mondo, c’è il Pacifico, con l’ansia di rimilitarizzazione dei giapponesi. Ci sono i cinesi. Ah, i cinesi. Se ha tempo, si ricordi dell’Europa.
E lasci perdere i politologi. A noi piace cerebrale. Di decerebrato abbiamo già avuto i Bush (e, davvero, bastano così).
Nicotera, 5 novembre 2014