In centinaia sono arrivati al confine turco-siriano per andare a combattere contro il Califfato dell’Isis. Sono arrivati per unirsi ai peshmerga delle Unità di Protezione Popolare e dell’Unione delle donne che stanno resistendo giorno dopo giorno contro l’avanzata degli jihadisti. Curdi turchi e curdi siriani da un lato e dall’altro del confine si sono dati da fare per abbattere le barriere di filo spinato e i blocchi di cemento. Vanno a difendere le loro case, vanno a conquistare la loro terra. Gli jihadisti dell’Isis sono sempre più vicini a Kobane, la città curda alla frontiera tra Siria e Turchia che rappresenta uno snodo strategico essenziale per il controllo del territorio. I combattenti curdi asserragliati in città si dicono pronti a combattere “casa per casa e strada per strada”. I raid aerei americani continuano, ma è sul terreno che si combatte la guerra vera. E lì, sul terreno, ci sono i curdi. Gli jihadisti dispongono di carri armati, artiglieria pesante e lanciarazzi multipli da 220 mm; i curdi hanno kalashnikov, mitragliatrici di fabbricazione sovietica e lanciarazzi Rpg, insomma sono più “leggeri”. Le armi promesse da tutti non si sono ancora viste. Chissà se davvero si vedranno. La Pinotti, il nostro ministro della Difesa, per convincere il parlamento a approvare l’appoggio aveva parlato di armi ormai in disuso. L’occidente si è affidato ai curdi per fermare l’inarrestabile avanzata del Califfato, ma la partita geopolitica, come sempre, è complicata. Però, loro combattono, per se stessi, per i cristiani, per i turcomanni, per gli yazidi.
«Il giorno della gloria e dell’onore è arrivato». Con queste parole il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) ha lanciato un appello ai propri militanti per combattere contro il Califfato dell’Isis. E i militanti hanno risposto in massa. All’inizio le forze militari turche li avevano fermati – la Turchia ospita più di centomila curdi fuggiti dalle atrocità della guerra –, poi i ribelli curdi hanno avvertito Ankara che se avesse continuato a ostacolarli la pace sarebbe saltata. I militari turchi adesso si girano dall’altra parte, e i curdi vanno a combattere. È stato Abdullah Ocalan a mobilitare i suoi. È stato Abdullah Ocalan a minacciare la rottura della tregua se la Turchia avesse continuato a fermare i curdi. Era stato Abdullah Ocalan a proclamare – un anno e mezzo fa circa – la tregua con il governo turco e la fine della lotta armata, chiedendo ai militanti di ritirarsi nella regione del Kurdistan iracheno.
Già Abdullah Ocalan è ancora vivo. Sta in una piccola isola del Mar di Marmara, che funziona da prigione di massima sicurezza per un solo detenuto, lui. Abdullah Ocalan è ancora vivo. Nonostante l’Italia, verrebbe da dire. Ricordate?
La guerra tra curdi e turchi dura da più di trent’anni. Ma i curdi hanno combattuto anche contro gli irakeni e contro gli iraniani, la loro nazione è a cavallo di questi stati. La Siria li sosteneva e ospitava Ocalan. Poi i rapporti si fecero tesi e precipitarono. Le autorità siriane non vollero consegnare Abdullah Ocalan alla Turchia, ma gli chiesero di lasciare il paese.
Ocalan cercò asilo politico in vari paesi, e in un primo momento si rifugiò in Russia ma gli fu chiesto di andarsene anche da lì. Nel frattempo Abdullah Ocalan nominò alcuni avvocati importanti in diversi paesi, tra cui l’Italia.
Abdullah Ocalan arrivò in Italia il 12 novembre 1998. Il governo era guidato da Massimo D’Alema, che si era insediato da circa un mese, dopo la caduta di Romano Prodi. Prima dell’arrivo, il Fronte di liberazione del Kurdistan in Italia aveva organizzato due conferenze, una alla Camera e una al Senato, per raccogliere le firme di deputati e senatori per invitare in Italia il capo del Pkk. Abdullah Ocalan arrivò in Italia accompagnato da Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista e responsabile Esteri del partito. Arrivato in Italia, Ocalan si consegnò alla polizia sperando di ottenere rapidamente l’asilo politico. Il governo però subiva forti pressioni, dagli Stati uniti che avevano inserito il Pkk nella lista delle organizzazioni terroriste, e dalla Turchia, che poteva esercitare una sorta di ricatto per via dei contratti che molte aziende italiane avevano con quel paese. Anche la Germania aveva emesso un mandato di arresto per Abdullah Ocalan: il cancelliere tedesco Gerhard Schröder però lo tenne nel cassetto, per evitare scontri con la numerosa comunità curda che risiedeva in Germania.
La gestione del caso fu un pasticcio: il diritto d’asilo è scritto nella nostra Costituzione, che esclude l’estradizione nel caso di reati politici.
Alla fine decisero di liberarsi di Ocalan, con la formula di un “allontanamento volontario”, ma non era facile trovare un paese disposto ad accogliere il capo del Pkk e lui non si sentiva sicuro. Dopo sessantacinque giorni in Italia, il 16 gennaio 1999, Ocalan fu convinto a partire per Nairobi, in Kenya, e pochi giorni dopo fu catturato dai servizi segreti turchi. Lo gettarono nell’isola di İmralı, e lì è rimasto fino a oggi.
Ora che la civiltà occidentale sembra tutta attestarsi sulla linea di fuoco di Kobane e affidarsi ai curdi per la propria salvezza, non sarebbe il caso di tirarlo fuori da quell’isola e liberarlo?
In fondo, si racconta che a Lepanto la genialità di Giovanni d’Austria che doveva salvare la cristianità fu quella di dire ai galeotti che stavano ai remi di quelle navi che si battevano disperate contro la Grande Flotta turca che avrebbe concesso loro la libertà se ci avessero dato dentro fino allo spasimo e avessero aiutato a vincere.
E vinsero.
Messina, 2 ottobre 2014