Grillini, non sparate su Caparezza

«Con rispetto parlando, quando affiancherò la mia faccia al simbolo di un partito o di un movimento politico vorrà dire che mi sarò direttamente candidato». Ha liquidato bruscamente le voci che correvano su una sua presenza alla manifestazione #Italiacinquestelle al Circo Massimo dal 10 al 12 ottobre, il cantante Caparezza. E si sono aperte le boccacce internettiane dei grillini, da irripetibili epiteti sulla virilità del cantautore molfettese a sprezzanti giudizi su questo o quell’album musicale. Un po’ è la reazione a una sindrome da accerchiamento nello sforzo verso un’iniziativa su cui sembrano puntare molto – quell’idea che se le cose non funzionano al meglio è perché tutti si sono alleati contro di te per non farle funzionare –, che dentro il Movimento 5 Stelle è un pensiero che va a corroborare il senso di appartenenza; e un po’ è la reazione a una sorta di delusione amorosa: Caparezza che aveva negli anni scorsi manifestato apprezzamento per Grillo e il suo movimento era, come dire, “arruolato” nei cuori dei grillini e faceva parte probabilmente della colonna sonora di molti militanti, e leggere questa sua freddezza, in un momento in cui una sua presenza avrebbe scaldato quei cuori, li ha fatti infuriare.
È curioso comunque constatare che il movimento politico che più di altri in Italia in questi anni recenti ha rappresentato la denuncia contro il malcostume e il malgoverno non abbia mai “sfondato” nello star system che, per principio, è sempre stato disponibile a dichiarare vaghe solidarietà con le cause dei deboli e degli oppressi. Tanto per capirci, quando Occupy Wall Street ingaggiò le sue battaglie contro la grande finanza, da Zuccotti Park passarono personaggi del calibro di Lou Reed o una “fidanzata d’America” come Anne Hathaway. In Italia attorno all’occupazione del Teatro Valle a Roma c’è stata simpatia e convinta partecipazione di qualche attore anche importante, come Elio Germano, ma più come il risultato di un intimo convincimento, di un proprio percorso, che come un mainstream.
Magari però non è “colpa” dei Cinquestelle e di un movimento la cui fluidità e “ragione sociale” è tale da rendersi intraducibile in strofe e giri musicali semplici, né di quel loro leader, così scafato nel mondo dello spettacolo che chiunque altro vi appartenga ha difficoltà a vedersi vicino. Magari è che è cambiato davvero qualcosa nel rapporto tra artisti e movimenti politici.
Un tempo invece. Un tempo non c’era causa sociale, non c’era collettivo territoriale, non c’era iniziativa popolare che non riuscisse a mettere in campo fior di menestrelli, e rumorose band scatenate e orchestre intere che moltiplicavano per mille qualsiasi tua battaglia e ti davano l’idea che un mondo intero si stesse spostando, e che una comunità di valori diversi si stesse aggregando. Quella volta che venne a cantare De Gregori, quella volta che Guccini, quella volta che Pierangelo Bertoli, erano scansioni importanti di una memoria epica che rimaneva incastrata nella storia di un territorio, ne diventava parte, racconto.
La sinistra, certo, tutte le sinistre avevano il monopolio, e come poteva essere altrimenti? L’impegno dell’artista che voleva fuggire dal rutilante mondo di paillettes e lustrini non poteva che trovare la sua sponda d’approdo nel mondo della fatica, del lavoro, della speranza di riscatto. Questo mondo era tutto il suo repertorio, d’altronde.
Le canzoni sono cose complesse fatte di cose semplici, parole e note che toccano il cuore. Se funzionano, ti danno la possibilità di esprimere un mondo di complessità in una maniera che tutti possono capire, che tutti possono “afferrare”: sono un piccolo miracolo. E il miracolo più straordinario è il fatto che quella sensazione di purezza e di verità si può riprodurre sempre, mentre ti fai la barba e canticchi o mentre dici due parole con gli amici su un muretto o mentre passeggi mano nella mano con la tua fidanzata. Il miracolo degli autori italiani di canzoni fu quello di fornire un sillabario di parole e suoni per scioperi, per manifestazioni, per cartelli, per assemblee, per volantini, per dibattiti. A volte, lo giuro, in un’assemblea qualcuno citava una canzone, per asserire un proprio concetto, e chi sosteneva un’altra proposta citava un’altra canzone. Marx e Lenin non funzionavano tanto con Do maggiore – La minore – Re minore – Sol settima.
Qualcosa poi si ruppe. Volarono le bottiglie contro i palchi, e si sfondarono i cancelli, e nessuno voleva più pagare per ascoltare le canzoni che parlavano di quel mondo che quei ragazzi cercavano di toccare, insomma, era come se si volesse sempre restare in un’età dell’oro, quando ci si metteva intorno al fuoco a strimpellare e cantare e farsi venire i lucciconi, ma era un’ingenuità e non era neppure delle peggiori, di quel periodo.
Così, gli artisti se ne andarono dalle strade. Se ne andarono tutti dalle strade, per la verità, e ognuno tornò al proprio posto, chi sul palco o in sala di registrazione e chi a pagare i biglietti e assistere ai concerti. La sinistra, quella democratica e per bene, ereditò buona parte dei canzonettieri, che ogni tanto ci mettevano la faccia. Per lo più, però, contrattavano i cachet.
Poi le cose si sono un po’ confuse, la destra cantava canzonettieri di sinistra, i canzonettieri di sinistra cantavano cose di destra, insomma, come per la politica, le bussole sono un po’ impazzite. A quel punto, potevi andare a cantare dove il cachet era migliore, e buonanotte.
È quasi diventata una scostumatezza accostare un cantante a un’intenzione politica.
Solo che senza colonna sonora non c’è movimento politico che tenga.

Messina, 1 ottobre 2014

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