Leonardo Messina, soprannominato “Narduzzo”, uomo d’onore e di fiducia del boss Giuseppe Madonia, è stato un importante collaboratore di giustizia. Le informazioni che diede a Borsellino permisero l’arresto di duecento mafiosi. Leonardo Messina fu uno dei primi a parlare della “Stidda”, di cui nessuno sapeva nulla.
«Un uomo messo fuori confidenza che punge altri uomini diventa “stidda”. C’è stata una rottura perché in alcuni paesi si sono create due Famiglie. Prima la “stidda” non aveva agganci. A questo punto hanno aggregato a loro tanti paesi creando una corrente. Si conoscono tra di loro, sono gli uomini d’onore, buttati fuori, che combattono Cosa Nostra»
La Stidda era l’altra mafia, la stessa cosa e pure un’altra. Tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta ci fu una vera guerra tra le due mafie, la Stidda e Cosa nostra. Nella sola Gela tra il 1987 e il 1990 ci furono oltre cento omicidi, che culminarono nella «strage di Gela» (27 novembre 1990), in cui tre agguati scattati simultaneamente in diversi punti della città provocarono otto morti e undici feriti.
La guerra si allargò a Niscemi e Mazzarino, nella provincia di Agrigento (a Racalmuto, Palma di Montechiaro, Canicattì e Porto Empedocle), dove bande di fuoriusciti si armarono contro le cosche locali per il controllo degli affari illeciti e, nel giro di tre anni, vi furono più di trecento omicidi nella zona, che culminarono nella cosiddetta «strage di Porto Empedocle» (4 luglio 1990), in cui vennero trucidati tre mafiosi e feriti altri tre dal clan stiddaro dei Grassonelli.
A guidare i killer di questa strage era Giuseppe Grassonelli. Giuseppe voleva vendicarsi dell’uccisione dei suoi parenti, quattro anni prima. La racconta così: «Il 21 settembre del 1986 era una calda sera di fine estate – io ero un ragazzo ventenne, appena congedato dal servizio militare – quando un commando di assassini entrò in azione compiendo una strage a colpi di mitra nella piazza centrale di Porto Empedocle… Quello che videro i miei occhi di ragazzo fu terrificante: mio nonno, mio zio e altre persone erano stese a terra; i loro corpi versavano in posizioni innaturali, crivellati dai proiettili. Io, pur rimanendo ferito a un piede, mi salvai per puro miracolo. Dopo quella sera fu praticamente un tiro al bersaglio contro i miei familiari».
Inizia qui la carriera criminale di Giuseppe Grassonelli, u stiddaro. Grassonelli sfugge a quattro agguati, risponde uccidendo uno dopo l’altro i suoi nemici. La sua è una guerra spavalda e temeraria contro Cosa nostra. E finisce per essere braccato sia dalla mafia che dallo Stato. Il suo incubo sanguinario finisce con l’arresto a 27 anni. Condannato all’ergastolo “ostativo” – gli è negato, cioè, ogni beneficio penitenziario: permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non collabori con la giustizia per l’arresto di altre persone, davvero fine pena: mai – non è diventato un pentito, da semianalfabeta che era si è laureato in lettere con 110 e lode, e ha scritto ora un libro, Malerba, la mala erba, con il giornalista e caposervizio del Tg5 Carmelo Sardo – all’epoca dei fatti giovane cronista per una tv locale che raccontava degli omicidi e delle stragi. Malerba è stato pubblicato nella collana “Strade Blu” da Mondadori e viene presentato da qualche mese in giro per la Sicilia e tra un po’ per tutta l’Italia. Dal giornalista Sardo, certo. Grassonelli sta all’ergastolo. Ostativo. Le strade dei due uomini che erano rimaste parallele pur vivendo nello stesso paese, Porto Empedocle, che poi sarebbe la Vigàta della trasfigurazione letteraria di Andrea Camilleri, si sono incrociate.
Grassonelli ha da poco scritto una lettera aperta ai suoi concittadini, che comincia così: «Sono stato in passato un barbaro criminale». È difficile pensare che questo libro non sia interessante. Difatti, è entrato in finale del premio letterario «Racalmare L. Sciascia città di Grotte 2014». Gli altri due finalisti sono Caterina Chinnici – la figlia del giudice ucciso dalla mafia, magistrata lei stessa e già assessore regionale siciliana con Salvatore Lombardo e ora europarlamentare del Pd – e Salvatore Falzone.
Il giurato Gaspare Agnello, componente decano della giuria del premio, si è dimesso per polemica. E ha chiesto: «È possibile che un ergastolano che si è macchiato di crimini efferati e le cui ferite sono vive nelle carni delle sue vittime partecipi a un premio letterario di cui sono stati protagonisti Sciascia, Consolo e Bufalino?»
La risposta, egregio professore Agnello, è: Sì, dovrebbe essere possibile. Con tutto il rispetto, bisognerebbe anzitutto valutarne il valore letterario, narrativo, di stile e di documento. O lei pensa, come Camilleri che non avrebbe mai pubblicato Il Padrino, che non è “morale” fare di un boss un personaggio d’un libro? La narrativa, da Omero in poi, è inzeppata di “cattivi” figuri. Restassero solo le piccole fiammiferaie, ci rimarrebbe poca cosa. Recentemente i Taviani hanno girato un film a Rebibbia con malerbe che peggio non si può – Cesare deve morire – che ha vinto tanti premi, pure l’Orso d’oro a Berlino, e è proprio un gran bel film.
Oppure lei pensa tra le pene ostative dell’ergastolo di Grassonelli, è contemplata anche l’impossibilità di scrivere una storia, e di partecipare a un premio letterario?
Se è così, date il premio alla Chinnici, ad honorem.
Nicotera, 28 agosto 2014