Meno male che Obama non è Theodore Roosevelt

Da quando, con la presidenza Obama, gli Stati uniti provano a smettere di essere il poliziotto del mondo, da ogni parte dell’occidente si levano cori e preghiere perché si decidano presto a rimettersi l’elmetto, calzare gli anfibi, prendere l’M-16 e intervenire in questa o quella guerra. L’occidente era il luogo dove si diede costituzione la seconda potenza mondiale – come la definì il «New York Times» –, il movimento contro la guerra. La seconda potenza mondiale, che voleva la pace, s’è sciolta; al suo posto le uniche voci che si sentono levare adesso chiedono guerra. Sono le stesse voci di prima, anche la tonalità è la stessa, etica e morale; sono le loro motivazioni diverse. Obama ha voluto rovesciare la strategia di Bush e delle sue guerre, e non solo per via delle bare con la bandiera a stelle e strisce che continuavano a tornare indietro. Non voleva restare impantanato in situazioni geopolitiche in cui gli interessi americani non sono strategicamente rilevanti, non sono prioritari. È verso il Pacifico – la Cina e il Giappone, soprattutto – che guarda Obama e guarda con apprensione: giusto o sbagliato che questo possa rivelarsi, è il segno della sua presidenza.
È curiosa la parabola delle guerre umanitarie. Bisognava mettere fine alle dittature sanguinarie e oppressive che, oltretutto, potevano, almeno per quanto riguardava Saddam Hussein e l’Iraq, anche preparare armi di distruzione di massa: l’umanità, la nostra ovviamente, era tutta nel liberare popoli dalla repressione, dal carcere indiscriminato, dalle torture, dai gas. O, come nel caso dell’Afghanistan, dall’intolleranza religiosa, dalla schiavitù in cui versavano tutte le donne coi loro burqa, dalla brutalità con cui crescevano i bambini, senza scuole, senza libri, senza aquiloni. Avremmo fatto un po’ di morti civili, ma la nobiltà dei nostri ideali avrebbe giustificato gli effetti collaterali, qualche villaggio raso al suolo e cose così. Fossero impregnati di laicismo sanguinario o di fondamentalismo folle e crudele, erano comunque regimi disumani – con pratiche politiche, etniche, religiose o addirittura igieniche assolutamente medievali: dovevamo esportare il nostro modo di vita, impiantarlo lì, con la forza, e avrebbero imparato.
Le cose non sono andate così lisce come si pensava. Dappertutto dove ci sono state guerre americane, anzi occidentali, è cresciuto e si è armato il fondamentalismo. Ora le voci di guerra chiedono di intervenire di nuovo: bisogna annientare l’islamismo che si fa Stato, come in Iraq, con l’Isis – lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante.
Persino la titubanza di Obama a intervenire in Libia gli è stata rimproverata, e quel suo limitarsi a spedire delle navi al largo che cannoneggiavano e qualche drone. Ora la Libia è precipitata nella guerra civile, con le milizie dell’Ansar Al Sharia o di qualche altro gruppo salafita, e quelle del generale Haftar.
Persino l’essersi deciso con estrema lentezza a prendere posizione contro Assad per la guerra civile in Siria, quando aveva solo lasciato intravedere la possibilità di rispondere adeguatamente, e non aveva messo la pistola sul tavolo.
Le guerre umanitarie non hanno avuto strategia politica, è pura pratica di guerra totale. Incaprettare Saddam andava bene. E dopo? Fare a pezzi i talebani e il mullah Omar, andava bene. E dopo? Non c’era una strategia politica nell’intervento, quale “partito” appoggiare, come, quali soggetti sociali incentivare, quali forme di ricostruzione, di produzione e di distribuzione della ricchezza instaurare. E quale sarebbe adesso la strategia politica? L’unico refrain ripetuto è impedire al fondamentalismo di farsi Stato, di impossessarsi di un territorio. È una pratica di contenimento, non un’offensiva. E poi quando sono esplose le primavere arabe le voci di guerra dicevano che erano meglio i dittatori, che tutto quel caos, eppure quello – è appena tre anni fa – era il “momento magico”.
Ora le voci della guerra chiedono di intervenire di nuovo. Gli americani ne avrebbero la responsabilità morale. Sono intervenuti, forse non hanno annientato con sufficiente determinazione, ora bisogna finire il lavoro. Tutti quei morti, per niente. Capite il “ragionamento”?
Obama ha cambiato la priorità della strategia americana nel mondo – dopo le disastrose guerre in Iraq e Afghanistan –, anzitutto rinunciando a qualunque coinvolgimento di truppe sul campo e avviando, dove è possibile e per quanto è possibile, la ricomposizione politica e anche etnica dei territori oggi sconvolti dalle guerre. Sta anche provando a far sì che le potenze regionali trovino dei punti di mediazione e compromesso: anzi, è proprio nel ruolo di mediazione che indica la possibilità per ogni nazione mediorientale – l’Egitto, la Turchia, l’Iran – di acquisire un ruolo significativo a livello internazionale. Non un “vassallo” o un “poliziotto” al soldo degli Stati uniti, ma interlocutori credibili. Non ci servono più «figli di puttana, ma comunque i nostri figli di puttana».
«There will be difficult days ahead», ha detto Obama nell’ultima dichiarazione sulla situazione in Iraq. Ci aspettano giorni davvero difficili.

Roma, 12 agosto 2014

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