L’astro fulgente della politica italiana s’è incartato. Il problema è – come con tutti quelli come lui della partita scapoli-ammogliati del venerdì sera all’accanita di calcetto, i sempreverdi golden boy – che Matteo Renzi, la palla non la passa. Dribbla, dribbla, ma non passa mai, pure il portiere dribbla, ma non va in porta. Prima s’è bevuto un po’ di avversari, Bersani, Berlusconi, Grillo, D’Alema, Chiti; poi ha continuato dribblando i suoi, Padoan, Cottarelli, Delrio, Guerini, poi ha continuato da solo. Finché uno, il più grosso, gli s’è fatto sotto e gli ha dato una sberla. E un’altra. E gli ha preso la palla. A quel punto Renzi s’è messo a dire: «Sono d’accordissimo. Ho sbagliato un paio di passaggi». E giù a ridere. Come Totò: mica lui si chiama Pasquale. «Sono undici anni che siamo in recessione, non da ieri». Mica Draghi stava parlando di lui.
Il presidente della Banca centrale europea è un po’ sotto pressione. Gli Stati uniti si sanno rialzando, i giapponesi provano a tirarsi fuori con l’Abeconomics alzandosi per il codino come il barone di Munchausen, i cinesi saranno pure in rallentamento ma continuano a comprarsi il mondo, e l’Europa non solo non riparte ma sta sempre più in affanno.
Non è che puoi stare lì sempre col bazooka in mano, come il segretario del tesoro americano, Paulson, e non sparare mai. Whatever it takes. Così disse un paio d’anni fa. Siamo pronti a fare whatever it takes, tutto quello che serve. I mercati si tranquillizzarono. Si sentirono protetti. Farà come gli americani, si dissero, hai visto Bernanke. Miliardi di dollari di liquidità, soldi stampati a strafottere, mica solo con la faccia di Washington e Lincoln, no, i pezzi grossi, quelli con la faccia di Franklin, di Madison, di Cleveland, ci avrebbe messo pure la faccia di Obama, Bernanke, su una banconota nuova da un milione di dollari – come l’assegno del signor Bonaventura di Tofano per il «Corrierino dei piccoli» – per quello che importava: gli Stati uniti non li manderà nessuno in default, neppure quegli scervellati dei repubblicani. Continueremo a stampare soldi finché l’occupazione non risalirà – così disse il vecchio Ben. Più o meno. Prima di andare via, Bernanke, ha lasciato capire che avrebbe rallentato un po’. E così è stato, è arrivata la Yellen e c’è meno quantitative easing in giro. L’occupazione però è risalita, la cosa ha funzionato.
Mario Draghi scalpita da un po’. Di soldi in giro ne ha messi, ma se li sono risucchiati le banche senza lasciare sgocciolare neppure un euro. Ha rastrellato sul mercato secondario tutti i bond che poteva, e i benedetti spread si sono calmierati. Però l’occupazione non risale. E se non risale l’occupazione vuol dire che non c’è crescita. E se non c’è crescita vuol dire che le tasse non diminuiscono, sennò come la reggi tutta sta spesa pubblica. E il debito lievita, perché pure che tagli se non hai entrate sufficienti sempre sul mercato li devi cercare i soldi, e pagare interessi e interessi sugli interessi. Insomma, le chiacchiere stanno a zero. Anzi, per l’Italia le chiacchiere stanno a meno zero, così dice l’Istat e pure la Banca d’Italia.
La cura tedesca ha stremato l’Europa. È salva, vero, ma così salassata che non ce la fa neppure a alzarsi dal letto. È allettata, l’Europa. E non è la condizione migliore per crescere. Vorrebbe cambiare cura, forse, Draghi, ma i tedeschi stanno coi fucili spianati. E quelli, i tedeschi, sparano sul serio, non come lui col bazooka. Gli dicono che vuole aiutare il paese suo, in realtà, con una certa flessibilità, con un bel po’ di denaro da iniettare. Gli dicono, i tedeschi, che ha il cuore nello zucchero. Tu te lo vedi a Draghi con il cuore nello zucchero?
Draghi lo sa, che il problema dell’Europa è l’Italia. Forse sa pure che il problema dell’Italia è l’Europa. Se non riparte l’Italia, l’Europa resta al palo. Dice, sì ma l’Irlanda è ripartita, con la cura, hai visto? Beh, sono quattro gatti, però. Dice: però pure il Portogallo è ripartito, e la Grecia. Beh, assieme non fanno i quarantaquattro gatti della canzoncina, però.
Poi è arrivato lui, l’asso pigliatutto, er fenomeno, Renzi. Con quel 40 e passa di voti alle europee, sembrava in condizioni di fare cose. Palla al piede sembra una foca, ci fa quello che vuole; in allenamento è sempre il migliore. In allenamento. E allora sponsorizzi, inciti, sottolinei, rimarchi. Ora c’è la Champions, però. E stiamo ancora a dribblare.
Allora, Draghi s’è stufato. E ha mollato le sberle. Se non siete in grado di fare le riforme, allora le faremo noi, ha detto. Noi chi? Noi la Bce? E come la fa la Bce la riforma della giustizia o quella del lavoro o quella della pubblica amministrazione o i tagli della spesa pubblica? Noi il Parlamento europeo, noi la Commissione europea? Draghi detta l’agenda di Junker, di Schultz? Detta l’agenda dei parlamenti nazionali?
Certo, sembra il momento apposta per dire certe cose: quello, qui, gongolava perché ha cambiato il Senato, quello, lì ha abolito in una volta Camera e Senato, elezioni, democrazia rappresentativa, repubblica. Draghi ha usato il bazooka. Solo che invece che sulla circolazione monetaria ha sparato sulla circolazione politica. Oh, gli stessi che fino a ieri mangiavano burro e alici con Renzi, oggi tutti in standing ovation, Draghi Draghi Draghi.
Dice, Draghi, che bisogna trasferire a Bruxelles certe regole. È tempo «to start sharing sovereignity», di iniziare a condividere la sovranità. Non ha aggiunto, perché l’aveva detto l’altra volta: whatever it takes, a qualunque costo.
Nicotera, 8 agosto 2014