Aveva novantadue anni Theodore Van Kirk, l’ultimo membro superstite dell’equipaggio dell’Enola Gay, l’aereo che sganciò la bomba atomica su Hiroshima, morto per cause naturali ieri l’altro in Georgia. “Dutch” – lo chiamavano così i suoi compagni di equipaggio, forse per via di quel “Van” nel cognome – su quell’aereo faceva il navigatore, seduto alla destra del comandante. Prima di lui, il penultimo perciò a morire, era stato Morris Jeppson, nel 2010, a ottantotto anni, che sull’Enola Gay aveva il ruolo di assistente agli armamenti. “Gli armamenti” erano Little Boy, la devastante bomba atomica che era stata preparata nei laboratori di Los Alamos da quei cervelloni del Manhattan Project guidato da Oppenheimer che poi se n’era pentito. Jeppson si portò dietro come souvenir due spolette di sicurezza della bomba, una verde e una rossa, e qualche anno fa le aveva messe in vendita ad asta, e il governo americano era intervenuto dicendo che erano classificabili come “segreto militare” e le voleva sequestrare ma un giudice aveva dato ragione a Jeppson che così s’era portato a casa 167.000 dollari.
Anche Paul Tibbets, il comandante della superfortezza B-29, era morto avanti con gli anni – cause naturali. Novantatre, esattamente, nel 2007. C’è una foto che li ritrae tutti e tre, scattata nel 2004 al Museum’s Steven F Udvar-Hazy Center. Sembrano tre arzilli vecchietti in gita: Tibbets ha una riproduzione dell’aereo tra le mani, e sorridono tutti verso il fotografo.
Benché abbiano vissuto a lungo e abbiano avuto tutto il tempo per riflettere su quello che accadde la mattina del 6 agosto 1945, nessuno di loro ha mai avuto un ripensamento, una qualche incrinatura. C’è da credere che avrebbero cavalcato la bomba – come il comandante dell’aereo nel film di Kubrik, Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. Dev’essere proprio una leggenda quella che si racconta in Calabria che uno dell’Enola Gay si fosse ritirato tra i monaci in clausura di Serra San Bruno, sconvolto per l’orrore provocato.
All’inizio degli anni Sessanta la “voce” si era proprio diffusa; i monaci dovettero esporre all’ingresso della Certosa un cartello: «Nella Certosa non c’è il pilota di Hiroshima. Non disturbate la quiete del convento. Il pilota del bombardamento atomico non c’è».
In realtà un qualche fondo di verità c’era: nel 2001 la Diocesi cattolica di Spokane, Washington, pubblicò un lungo necrologio in memoria di padre Tony Lehmann, morto per leucemia a 73 anni. Lehmann, dopo il diploma superiore si era arruolato nell’esercito statunitense. Alla fine della guerra, fu inviato per servizio a Hiroshima e fu «testimone della devastazione causata dalla bomba atomica» – recitava così il suo necrologio. Congedato, nel 1952 finì per «arruolarsi» di nuovo, stavolta nei Certosini. Ordinato sacerdote nel ‘59, per dieci anni visse nei monasteri dell’Ordine di Pisa e in Calabria, a Serra San Bruno. Qui deve aver narrato ai fratelli gli orrori di cui era stato testimone. E la “voce”, benché imprecisa, era girata.
Per una qualche strana coincidenza, tra i misteri in cui è avvolta la scomparsa di Ettore Majorana, il giovane geniale fisico siciliano che faceva parte del gruppo di via Panisperna da cui nacque tutto, sparito nel nulla il 27 marzo 1938, c’è anche il ritiro nella Certosa di Serra. Leonardo Sciascia cercò di indagare e ricostruire, nel suo “La scomparsa di Majorana”, il mistero. Un giallo “filosofico”, nel quale viene messa in relazione la “fuga dal mondo” dello scienziato con una crisi etica e religiosa. Per Sciascia, il fisico avrebbe deciso di sparire perché tormentato da dubbi e scrupoli morali per aver intuito, con grande anticipo, gli effetti terrificanti delle ricerche sull’atomo. Majorana avrebbe accuratamente architettato la scomparsa, prima di ritirarsi dietro la porta di un convento. Sciascia non scrisse mai che il convento in questione fosse quello di Serra, però lì ci andò e lo visitò, forse dentro di sé se n’era davvero convinto.
A lungo – fino ai 94 anni – ha vissuto anche Tsutomu Yamaguchi, che non sganciò nessuna bomba, anzi ne fu vittima. Per la verità Tsutomu Yamaguchi ne fu vittima due volte. Era un hibakusha, un sopravvissuto. Yamaguchi, dopo l’esplosione di Hiroshima, si era rifugiato a Nagasaki. Andò al secondo appuntamento e si salvò per la seconda volta, tre giorni dopo. Non è stato il solo, era una delle 165 vittime giapponesi ufficiali di entrambe le bombe atomiche. Per la verità, il giorno che bombardarono Hiroshima, gli americani avevano altri due obiettivi, in alternativa, a seconda delle condizioni di visibilità: una era Kokura, l’altra era proprio Nagasaki. Gli americani bombardavano già prima delle atomiche le città giapponesi con intensità: solo a Tokio c’erano stati centomila morti. I civili giapponesi ormai si spostavano continuamente, fuggendo dai grandi agglomerati urbani e dai luoghi dove c’era produzione di armamenti: fu questa obbligata migrazione, peraltro, che rese meno devastante i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki [le due esplosioni provocarono, direttamente e in seguito per le ustioni e i tumori da radiazioni, più di duecentomila morti], che in realtà erano molto più popolose. Fuggire dagli arsenali però non serviva a molto. La decisione degli americani di usare la bomba atomica – come prima i bombardamenti sulle città giapponesi – era mirata proprio al castigo e a mostrare quale terribile potenza, mai vista, fosse nelle loro mani pronta a cancellare dalla faccia della Terra ogni resistenza. I tedeschi si erano arresi nel maggio del 1945, la guerra nel Pacifico continuava.
L’orrore era necessario. È questo il mantra: d’altronde, uno dei due aerei che accompagnarono l’Enola Gay e serviva per scattare foto e fare riprese era senza nome e venne battezzato al ritorno. Necessary Evil, il Male necessario, così lo chiamarono. Il bombardamento di Hiroshima, del 6 agosto, e quello di Nagasaki, del 9 agosto, costrinse i giapponesi alla resa, questo è il mantra. Gli storici, anche quelli militari, non ne sono più tanto convinti. L’Unione sovietica aveva rotto il patto di neutralità e attaccato la Manciuria e avanzava rapidamente, e dentro il governo giapponese ormai solo i militari erano convinti che avrebbero retto qualsiasi urto, mentre i civili, già da tempo, avevano avviato con gli Alleati trattative diplomatiche per la pace. Le città giapponesi erano stremate. Si risparmiarono migliaia di vite americane, questo è vero, considerando l’enorme numero di morti lasciato dagli Stati uniti nella guerra del Pacifico, ma anche considerando obbligato uno sbarco sul tipo di quello in Normandia. E probabilmente invece non sarebbe stato più necessario.
Tsutomu Yamaguchi per tutta la lunga vita da hibakusha che gli avanzò si batté contro gli armamenti nucleari. Una volta disse: «Era mio destino che subissi ciò due volte e che sopravvivessi a entrambe per testimoniare ciò che accadde».
Tutta questa storia – il superbombardiere Enola Gay, le vittime di Hiroshima – adesso non ha più testimoni.
Nicotera, 30 luglio 2014