Tre domande a Antonio Ingroia sulla trattativa tra Stato e mafia

Senza ombra di dubbio, con l’articolo uscito domenica 13 luglio sulle pagine del «Garantista» a proposito della “trattativa” tra mafia e Stato, Antonio Ingroia ha espresso nel modo più chiaro fatto sinora il suo punto di vista. Cerco di ridurlo all’osso per chi non avesse avuto occasione di leggerlo.
Dice Ingroia: nessuno è stato incriminato per aver ceduto alla trattativa – questione ormai squisitamente politica e semmai storica –, chi è imputato, lo è per falsa testimonianza, perché aveva il dovere, come chiunque interrogato da un giudice, di raccontare cosa fosse successo esattamente. E aggiunge: in realtà si parla troppo a vanvera, dato che in gioco non era lo Stato, ma solo la vita di una ristretta cerchia di politici condannati a morte da Cosa Nostra perché l’avevano tradita. Chi trattò, ancorché non imputabile, sebbene moralmente discutibile, scese a patti per la propria ghirba. Si salvò, ma condannò a morte Borsellino e le altre vittime delle stragi del ’93.
Come si può capire, parole chiare ma pesanti come macigni.
Provo a scendere sul terreno storico, come indica il dottor Ingroia e parlerò d’altro. Anzitutto del caso Moro. Sarebbe un crimine storico comparare i due fenomeni e i due momenti, però la minaccia contro lo Stato c’era tutta, e il ricatto pure. Non è ben chiaro se Ingroia avrebbe assentito a che venisse svolta una trattativa, se fosse possibile cioè accettare l’ultimatum delle Brigate rosse – che chiedevano in cambio della liberazione di Moro la libertà per alcuni detenuti – perché, sebbene si trattasse di una singola vita posta sotto ricatto, la sua “incarnava” davvero lo Stato: ancorché politicamente discutibile, la figura di Moro non è paragonabile a quella di un Lima, tanto per capirci. Eppure, Moro proprio di quello parlava nelle sue lettere da prigioniero. Provava disperatamente a “spogliarsi” della propria storicità – dell’essere cioè l’uomo che stava aprendo alla collaborazione governativa con i comunisti – e a presentarsi tutt’intero nella propria singolarità umana. Nuda vita, questo era. E ai “valori” etici – l’unicità della vita della persona – del proprio partito Moro disperatamente cercava di aggrappare ogni esile filo di speranza, all’essere cristiano. A un martirio laico, si sentiva condannato. A un martirio statale. E questo non gli era proprio comprensibile. Moro, si fosse presentata l’occasione e ne avesse avuto la possibilità, l’avrebbe salvato a Lima. Ingroia, mi chiedo, avrebbe, invece come gli altri, come la maggior parte degli altri, “statalizzato” la persona di Moro? La risposta, temo, sta nella stessa adamantina certezza di Ingroia. E uno.
Nel caso del sequestro Cirillo – sempre di storia parliamo –, invece, i politici trattarono. Forse perché, seguendo Ingroia, Cirillo era “impresentabile”? La sua “rappresentazione” della statualità era indigeribile e quindi la sua “umanizzazione” più accettabile? Sembra di capire – la minaccia e il ricatto erano alla persona di Cirillo, non certo allo Stato – che Ingroia non avrebbe mosso un dito per salvare il politico napoletano, e se ne mossero di dita al tempo. Lo avrebbe abbandonato a se stesso. E due.
E nel caso D’Urso, il magistrato alla Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena presso il ministero di Grazia e Giustizia, sequestrato dalle Br nel dicembre 1980 e poi liberato nel gennaio successivo dopo la chiusura dell’Asinara, l’isola a nord della Sardegna che era stata trasformata in una sorta di Cayenna – proprio la condizione per il suo rilascio? D’urso era una faccia “pulita”, un servitore dello Stato. Che avrebbe fatto Ingroia? Avrebbe ostacolato i laicissimi radicali che fecero l’impossibile per salvare una vita umana? E tre.
Tre casi differenti, con soluzioni differenti. La storia però è una. E la sconfitta politica delle Brigate rosse non passa per nessuna di quelle soluzioni. E il loro “livello di fuoco” neppure.
Perché è questo il punto. I corleonesi avevano scelto la guerra totale contro lo Stato, una cosa mai vista prima. La strage in cui morirono Borsellino e gli altri non fu il risultato della “trattativa”, ma esattamente all’opposto la progressione del livello di guerra scelto dai corleonesi. È l’orribile “dimostrazione” che non ci fu proprio alcuna “trattativa”, o che la trattativa fu destinata al fallimento. Che la riduzione del regime speciale per alcuni detenuti era solo una misura di civiltà, e lo sarebbe ancora adesso, esattamente come lo era la chiusura dell’Asinara. Che la “melina” che alcuni politici fecero non servì solo a salvare la loro miserevole vita – quando è miserevolmente “propria” la vita di un politico, e quando invece è “pubblica”? – ma a impedire qualche strage folle, come quella progettata allo Stadio Olimpico, in cui sarebbero morti a centinaia, uno scenario ancora più sconvolgente di quello alla stazione di Bologna.
Il dottor Ingroia fa propria la disperata profezia di Moro – il mio sangue ricadrà su di voi –, per rovesciare il sangue di Borsellino, e di tutti gli altri, su chi trattò. Però, Moro la cercava, la trattativa. E questa, ancorché materia di storia, è proprio come andarono le cose.

Nicotera, 14 luglio 2014

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