La democrazia maltusiana di Finocchiaro e Calderoli

Uno può pure pensare che gli americani siano un tantino esagerati coi referendum. Per dire, a novembre 2012, in occasione delle elezioni presidenziali poi vinte da Obama, sono stati anche chiamati a votare su centosettantaquattro quesiti referendari in trentasette Stati. Centosettantaquattro quesiti: in Maine, in Colorado, in Minnesota, in Massachusetts, in Florida e persino a Porto Rico, dove il sessantuno percento degli elettori ha votato per diventare la cinquantunesima stella della bandiera americana. A Porto Rico sono in tutto quasi quattro milioni, una metropoli neanche tanto grande piuttosto che uno Stato, ma un principio e un diritto non si calcolano a peso. Negli Stati uniti, dico.
Certo, nella contea di Los Angeles è stato chiesto agli elettori di esprimersi sull’obbligo dell’uso dei preservativi durante le riprese di film a luci rosse. E a larga maggioranza ci si è espressi per il Sì. Uno che sta qui, con tutta la buona volontà che può metterci – e pure chiedendosi quanto bizzarro sia il puritanesimo americano –, fa fatica a capire le priorità delle questioni nella contea di Los Angeles. Però un principio e un diritto non si calcolano a peso. Negli Stati uniti, dico.
E alle elezioni di mid term del prossimo novembre – quelle che riguardano il Congresso, i 435 membri della Camera dei Rappresentanti e un terzo dei cento membri del Senato, e alcuni dei governatori dei singoli Stati – ce ne saranno altri, di referendum, tipo quello sostenuto dalla Cannabis Campaign che ha già consegnato cinquantasettemila firme, più del doppio del necessario, per chiedere che si svolga una consultazione su una legge che permetta ai maggiori di ventun anni di possedere fino a cinquantasei grammi di marijuana per uso personale e coltivare fino a sei piante a casa. A Washington D.C., il cuore politico della nazione, tipo che coltiveranno le piantine pure nel giardino della Casa Bianca, tra le zucchine e i cavoli di Michelle Obama. Come se noi qui votassimo se poter fare l’orto davanti all’Altare della Patria. Con le piantine di cannabis, dico.
E uno può pensare che pure gli svizzeri siano un tantino esagerati. In un referendum che si è tenuto nella primavera scorsa si votava se introdurre il salario minimo di ventidue franchi (diciotto euro) all’ora, il più alto del mondo; fatti due conti, il salario minimo sarebbe stato pari a 3.270 euro. Voglio dire per uno che fa le pulizie, in Svizzera, che qui manco un professore incaricato all’università li prende, tutti quei soldi.
Uno non ci crederebbe, però gli svizzeri l’hanno bocciato. Dico io, fatelo qua in Italia, un referendum così.
Però, invece, in Italia i referendum abrogativi e le leggi di iniziativa popolare diventano sempre più limitativi, stringenti, complicati da effettuare. In Commissione Affari costituzionali al Senato, è passato un emendamento proposto dai relatori del ddl sulle Riforme, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, che modifica il titolo V della Costituzione, tra cui gli articoli 71 e 75. L’articolo 71 è quello che recita: «Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori». Calderoli e Finocchiaro, Lega e Pd, vogliono che ne occorrano duecentocinquantamila, di elettori, cinque volte tanto. A peso. L’articolo 75 invece recita: «È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». A Calderoli e Finocchiaro cinquecentomila sembrano un po’ leggerini e pensano che ce ne vogliano un milione – che è una cifra tonda e riempie la bocca e suona bene – per chiedere un referendum. E inoltre, laddove il testo costituente prescrive che la legge è approvata «se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto», i due nipotini ri-costituenti propongono che per la validità del referendum debba aver votato la metà più uno del numero dei votanti alle ultime elezioni della Camera: avremmo così un “quorum a misura variabile”, un quorum flessibile, una casualità – può accadere che in un referendum la divaricazione fra i Sì e i No non sia ampia –, così che se si fosse votato per la stessa cosa in un anno piuttosto che in un altro sarebbe andata bene oppure male. Un risultato perciò non determinato dalla maturazione di un problema dentro la coscienza nazionale, ma dalla variabilità dell’affluenza elettorale a una precedente votazione che nulla c’entra. Il che davvero ha poco di criterio costituzionale. Sembra piuttosto un modello “malthusiano”, demografico, della democrazia.
Forse c’è una dannazione originaria nei referendum da noi. Il primo non nacque da una richiesta popolare e non ci fu raccolta di firme ma fu, potremmo dire, graziosamente octroyée anche dal re, che accettò di fare un referendum su se stesso. Abrogammo la monarchia, magari coi brogli, chi sa, però la abrogammo, solo che questo restò l’imprinting dei referendum: abrogare qualcosa che già c’è. Però la costituzione nostra prevede pure che «il popolo eserciti l’iniziativa delle leggi». Anche se in verità non è che l’abbia esercitata molto questa iniziativa. O ci crediamo poco o ne restiamo spesso delusi.
C’è un’idea “provvidenzialista” della produzione di leggi, come se un qualche roveto ardente dovesse parlare e poi farci ritrovare delle tavole. Come se fosse fatto divieto agli uomini e alle donne potersi esprimere quando e in quanti pare loro.
Siamo molto “tutelati” noi italiani dal proporre leggi, e per la verità sembra che tutta la nostra democrazia vada verso una tutela: troppo localisti, troppo provinciali, troppo comunali, poco “colbertiani” – che Tremonti mi perdoni. Finiremmo magari col fare referendum a raffica contro l’orto dei vicini.
E hai visto mai che, presa la mano, ci mettessimo a chiedere se approvare o meno che il preservativo diventi obbligatorio nei film a luci rosse.
Qui da noi, dico, mica negli Stati uniti.

Roma, 9 luglio 2014

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