Ora che ho detto peste e corna – per chi volesse e ha tempo da perdere, qui – dell’unanime, da destra a sinistra, coro nazionalista che ha inneggiato all’Oscar de La grande bellezza come fosse proprio e di tutta l’Italia – l’ultimo episodio è il «Siamo entrati nella storia» di Carlo Rossella, uno che sbaverebbe per partecipare alle feste di Jep Garmbardella, uno che per il solo fatto di avere lasciato a terra la Ferilli e Verdone e essere volato lui a Los Angeles se le vedrebbe rovinate, le proprie feste, da Jep Gambardella, uno che se Jep Gambardella lo acchiappasse su una terrazza romana gli farebbe il culo a strisce, uno che per quanti sforzi faccia e culi abbia leccato per tutta la vita se la sogna l’eleganza delle giacche di Jep Gambardella – posso parlare del film.
Che è vero, è pieno di imperfezioni, come dice il critico Mereghetti, e sovrabbondante di citazioni – non solo il Fellini de La dolce vita, ma anche quello di Giulietta, di Roma, e de La città delle donne, con scene quasi rigirate e personaggi reimpiantati, e c’è pure tanto Scola –, e ha una storia debole e Gambardella si riduce quasi a una guida turistica per visitare luoghi [proprio come lo Stefan che possiede le chiavi dei palazzi delle principesse, pieni di tesori], però è davvero girato straordinariamente.
Sorrentino – e direi anche Bigazzi, direttore della fotografia che più degli altri, pur tutti bravi, ha una gran fetta del premio – sa catturare la luce e disporla sui volumi dei corpi [siano fabbricati, siano monumenti, siano quadri o statue, siano persone in una stanza o in una festa] come pochi altri [per dirne uno, Peter Greenaway], sa dare profondità alle scene, sa riproporre la prospettiva rinascimentale – la scena girata al Tempietto del Bramante a San Pietro in Montorio, non dev’essere proprio casuale – su una superficie piatta come lo schermo.
Il film è una gioia per gli occhi, pur essendo girato quasi tutto di notte, o alle prime luci, e pure, per chi conosce Roma e l’ha passeggiata in quelle ore, ha bevuto di mattino presto a un nasone o ha camminato lungo le sponde del fiume o è entrato al Giardino degli Aranci, è davvero così, quella è la luce di Roma.
La scena iniziale è un po’ tutto il film: la fontana dell’Acqua Paola con il coro del Torino Vocal Ensemble che canta in modo straordinario I Lie e ci potrebbe fare avvicinare al senso della bellezza, viene invece usata con indifferenza da un panzone in canotta che vi si sciacqua le ascelle senza badarci – è questo il modo con cui i romani vivono la città, senza pensarci, e d’altronde come altrimenti potrebbero viverla, viverci? È la volgarità degli uomini, non dei romani. È la volgarità del gruppo turistico di asiatici, da cui si stacca un signore che non va a sentire il coro, non va a stupirsi della bellezza della fontana, ma a fare una fotografia da lontano della città, una stupidata, e cade svenuto. Neanche i turisti, i foresti, quelli di fuori, soprattutto quelli di fuori, invadenti e invasivi, sempre pronti a mettere a sacco la città, ci salveranno dalla volgarità. Il coro prosegue il suo canto meraviglioso, per pochi, o solo per sé. La bellezza è inattingibile.
Questo doppio registro, l’accostamento continuo della bellezza e della volgarità è forse tutta la chiave del film, e solo a Roma può darsi questo accostamento. Non è un film su Roma, ma un film che solo a Roma poteva essere pensato e girato. Dove si può essere volgari di fronte all’insopportabile bellezza – per non svenire – e dove ci si può struggere per la bellezza della storia: gli unici uomini che a Roma possono reggere la città sono quelli che ci sono stati nei secoli, quelli che hanno fatto bellezze nei secoli; gli altri, tutti gli altri, quelli del film, noi che l’abbiamo vissuta e amata o detestata, che la viviamo, amiamo e detestiamo, non contiamo un cazzo. Nessun uomo in carne e ossa può reggere una città come Roma. Roma si regge da sé. Non è New York o Parigi o Berlino o Bombay dove serve un sindaco o un’amministrazione.
Jep Gambardella è il concentrato di questa giustapposizione continua, e può esserlo – può cioè non abbassarsi a sciacquarci le ascelle o distrarsi o svenire – perché viene da fuori ma non è un turista.
È un letterato, anzi un ex letterato, se, come per i carabinieri, si può essere mai ex letterati, uno che ha scritto un solo libro – come dice Buccirosso «che ha cambiato la storia della letteratura italiana» – ma non ha scritto più niente e fa interviste stupide a gente stupida – come a quella copia della Abramovic che, nuda, si sbatte la testa contro le pietre dell’Acquedotto, ma attenti al trucco, c’è la gommapiuma, e forse non è vero, ma i romani sono cinici e sgamano subito chi si prova a raccontarci che questa è arte. Sembra Raffaele La Capria, più che cenni di autobiografia come ha detto Sorrentino, Jep Gambardella. Ama il mare, Jep, come La Capria, [la scena di Jep giovane in acqua con le ragazze che lo guardano dagli scogli non è al Circolo di Posillipo dove invece primeggiava La Capria, ma ci somiglia], tanto da figurarselo sul soffitto di casa; hanno vinto entrambi un premio da giovani – La Capria lo Strega, Gambardella il Bancarella – e da giovani si sono trasferiti da Napoli a Roma, per fermarsi. La Capria ha continuato a scrivere, certo, ma dopo quel capolavoro di Ferito a morte – nessuno mi perdonerà per quello che sto per dire – se non avesse scritto niente sarebbe stato lo stesso.
E c’è un’altra notazione letteraria-mondana [perché di letterati mondani sono anche fatte le terrazze romane: c’è un direttore in carne e ossa di collana editoriale in carne e ossa, alla festa, uno serioso e importante che ci sta proprio come se non ci fosse davanti alla torta da cui esce Serena Grandi, sfatta e grandiosa, ma ci sta, eccome ci sta] a parte la flagellazione, quasi voluta e cercata dall’impegnata a chiacchiere Stefania. Quando, alla festa iniziale Romano (Verdone, che con la Ferilli, la Ramona, fanno un buon lavoro) sta cercando di intrattenere quella stronza che lo sfancula e lei invece fa gli occhi dolci a un aitante attor-non-più-giovane che parla di progetti «ambiziosi» per il teatro, e lei civetta citando Proust e l’attor giovane dice che Proust è proprio il suo autore preferito, poi aggiunge: «Pure Ammaniti mi piace, però». Eccolo ancora, il doppio registro, la carta di riserva, la carta del baro, una cattiveria, certo, non gratuita, no.
Il film va avanti a strappi e ritorni, è come un montaggio di scene reali e trasfigurate [come quella del botulino, ormai pratica comune a questo tipo di feste e party] e non lo sviluppo di una sceneggiatura. È vero, Sorrentino non ha la forza visiva di un visionario come Fellini, il Fellini di Roma, per dire. Non capisco però quelli che dicono che sì, le scene sono belle da vedere ma non c’è storia. Dico, se volete una storia compratevi un romanzo o leggetevi i quotidiani. Al cinema si guardano le storie.
Jep Gambardella è pieno di rimpianti, di una vita che sarebbe potuta essere diversa e pure è stata proprio quella che doveva essere. Nulla ci salva dalla solitudine della consapevolezza, della conoscenza, forse neppure la bellezza. Insegue la purezza, Jep Gambardella, la purezza che si è lasciato dietro le spalle, che ha visto solo per un attimo, da giovane, e che ora immagina sul soffitto della propria camera da letto, il mare. Perché il mare è la sua giovinezza e il mare è purezza, e a Roma non c’è il mare e quindi quel soffitto è la sua linea di fuga, il suo rimpianto e la sua speranza. Che condivide – un gesto di generosità, e non è l’unico nei confronti di Ramona, che il male vero lo ha dentro di sé, e ci combatte – proprio con chi col mare non ha dimestichezza, perché semmai nuota nella piscina di casa e col salvagente [«Perché i bracciali me irrritano le ascelle»], eppure lo vede anche lei, e questo è davvero un miracolo. E dopo, si può morire.
Ma non parlate di cafonal, non c’entra nulla. Il cafonal è solo una fotografia dell’esistente, è proprio Umberto Pizzi e i suoi scatti. Ma Pizzi e D’Agostino insistono quello, lo magnificano quasi, come una estetica orribile e disperante, a tratti commovente. Jep non cede alla mondanità, reale o virtuale – quando Isabella Ferrari sta per mostrargli al computer le foto di lei nuda che piacciono ai suoi amici di facebook, lui se ne va. Pizzi avrebbe fatto uno scatto.
Non è un film sui ricchi – esser ricchi è «un bel mestiere», ma nulla di più – come, per dire, Un castello in Italia della Bruni Tedeschi. A Roma non ci sono ricchi, perlomeno non ci sono i ricchi delle città del nord, la buona borghesia fané, o quella tormentata e cupa di Io sono l’amore di Guadagnino. E difatti, la Isabella Ferrari, a cui è rivolta la battuta sul mestiere dell’essere ricchi, viene dal nord. A Roma, ci sono gli arricchiti, quelli la cui vitalità è impastata di arroganza e volgarità, però sono vivi, e rapaci, e gli altri – i ricchi veri, che ci sono – sono morti, mummificati. Come i cappuccini [e i Barberini] della cripta di Santa Maria Immacolata a via Veneto.
Al funerale del giovane Andrea, suicida, Jep piange quando solleva e porta la bara fuori. Sono lacrime finte, di circostanza, come la frase che aveva appena detto, dopo averla “provata” prima, a casa, all’orecchio della madre? Sono lacrime vere? Jep capisce il suicidio di Andrea, o meglio capisce la disperazione di Andrea, ma non il suo suicidio: è un sacrificio inutile, un gesto eccessivo, di cattivo gusto. È ancora capace di piangere Jep Gambardella? Non lo capisce Ramona, che lo guarda interdetta, ma anche commossa, piangerà così – lei che sa vicina, la morte – al suo funerale? Neppure noi lo capiamo. Che importa? La morte si mette in scena. Jep piange perché non si può far nulla contro la morte, che adesso comincia a vedere – ha appena fatto sessantacinque anni, e non ha più tempo per fare le cose che non vuole fare. Piange la propria, di morte, piange al proprio, di funerale. Piange contro la morte, che è il male assoluto per chi ha amato la vita, eppure sa che resistere non serve a niente – come ha detto Walter Siti, uno a cui Umberto Contarello, lo sceneggiatore, deve proprio tanto. È la lezione materialista e pessimista di Leopardi, del Leopardi dei giorni di Posillipo, ma qui non c’è nessuna speranza soldidaristica.
Jep Gambardella non è un dandy, non è un moralista che fa sermoni laici, non c’è castigo e non c’è via di riscatto, e perché mai la volgarità dovrebbe essere punita, dagli uomini, da dio? La natura, dio, quel che l’è, ci hanno dato le ascelle. Semmai è uno gnostico. Nulla ci salva, neppure la santità, neppure la mistica. Le suorine ricorrono sempre in vari punti del film – quasi come la vecchina dei film blu, bianco e rosso di Kieslowski. Nel carnevale della vita, il male [la volgarità degli uomini] è attaccato a noi, ci incespichiamo continuamente. Persino se passeggiamo lungotevere c’è un terzetto di cazzoni che fa la corsetta e dice cose orribili, strascicate, e sfregia quel momento. Forse pure lo organizziamo, il male. E non si può fare nulla per debellarlo. Non più. Un tempo, si poteva. Quando credevamo in dio, nella storia, persino nella letteratura. E questo ha creato la bellezza. La bellezza può arginare il male, che contagia tutto, persino la mistica, la religione, la letteratura, la contemporaneità. Forse.
A Roma, certo. E dov’altro?
Nicotera, 6 marzo 2014
Foto di Gianni Fiorito_ lastampa.it