Da quando l’epocale studio di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, Growth in a time of debt (Crescita in tempo di debito), la cui tesi sostanziale è che «i tassi di crescita mediana per i paesi con debito pubblico superiore al 90% del Pil sono all’incirca dell’1% più bassi di una situazione diversa da questa», diventata la leva teorica di ogni politica di austerità e rigore, è stato messo a critica perché il foglio Excel su cui venivano calcolati i dati era incompleto e errato, si è aperta la guerra tra gli economisti.
Paul Krugman ci è andato a nozze, con un articolo dal titolo bellissimo, The Excel Depression, e poi continuando la sua keynesiana e primeva battaglia contro gli austeristi. Ultimamente ha alzato il tiro contro i “ragazzi della Bocconi”, Alberto Alesina e Silvia Guaragna, colpevoli di essere autori di un paper del 2009, Large Changes in Fiscal Policy: Taxes Versus Spending, girato e piaciuto parecchio nelle stanze dei bottoni di Bruxelles, in cui si sostiene che la riduzione della spesa pubblica porterebbe ad un aumento del Pil, dato che la tenuta dei conti accrescerebbe la fiducia di mercati e investitori nel paese sotto austerity. Sarebbero insomma i due bocconiani i mentori del rigorismo europeo e del disastro recessivo.
Alesina, però, non ci sta — a difendere la Bocconi scende in campo Guido Tabellini, ex rettore —, e rilascia un’intervista all’«Huffington Post» italiano in cui ribatte che «C’è austerity e austerity, in troppi usano questa parola come un termine pigliatutto», e che la sua ricetta non era certo quella di Monti, perché lui non avrebbe mai aumentato le tasse.
C’è da scommettere che la guerra tra gli economisti — manco fossero popstar, che so Madonna vs Lady Gaga — continuerà e assumerà tinte sempre più cruente.
Ora, la tesi condivisa dagli opposti schieramenti è che le teorie economiche siano responsabili delle politiche sociali. Che è un po’ come dire che Pinochet fece il suo golpe in Cile perché aveva letto le teorie della scuola di Chicago e se ne era tanto innamorato da volerle applicare. O che lo stesso fosse capitato alla Thatcher [alla Thatcher!] e Reagan [a Reagan!] E ancora: che la Merkel sia così austera per via dell’impregnarsi della sua anima di ordoliberalismus della Scuola di Friburgo. O, per il passato, che l’adozione di politiche keynesiane sulla domanda aggregata fosse stata dovuta alla lettura compulsiva di The General Theory of Employment, Interest and Money e non piuttosto [come d’altronde era chiarissimo a Keynes] dalla necessità di stornare altrimenti il fascino esercitato dal comunismo sulla classe operaia.
Per cui, ora che anche i vertici del Fondo monetario [dichiarazioni di Christine Lagarde] o importanti uomini politici [su tutti, Hollande] stanno lentamente tornando verso politiche neokeynesiane, è fatta. Un po’ di pazienza — bisognerà aspettare settembre, e le elezioni in Germania — e l’Europa riprenderà il suo luminoso cammino, anche perché Bernanke e Obama ci stanno già dando dentro, con i primi buoni risultati [la disoccupazione è scesa come mai negli ultimi dieci anni] e ora anche il Giappone con la sua Abenomics [la BoJ stampa yen a tutta callara] prova a tirare su la testa dopo vent’anni di recessione.
Vorremmo perciò riportare le cose con i piedi per terra. La crisi del 2007 è una crisi strutturale, crisi della forma di produzione e delle forme di distribuzione della ricchezza prodotta. C’è un mondo nuovo che preme e c’è un mondo vecchio che cerca forme di dominio per perpetuare il proprio potere.
Scrive così Karl Marx nell’Introduzione a Per la critica dell’economia politica: «Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione».
Amen
Nicotera, 21 maggio 2013